Banca d’Asti, se “Mamma cassa” passa ai forestieri

Banca d’Asti, se “Mamma cassa” passa ai forestieri

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Prima regola della banca: «Non si parla della banca». Seconda regola: «Non si parla mai della banca». E meno male che nel Fight Club della Banca d’Asti, dove la trasparenza non è tra le principali virtù dei protagonisti, ci si affronta solo con le carte e con i numeri. Nel film con Brad Pitt ed Edward Norton il combattimento finiva quando qualcuno gridava «basta», qui si aspettano atti e sentenze. Ma non è detto che nessuno si faccia male.

Fuor di metafora, la Banca d’Asti, negli ultimi tempi, è finita al centro di una storia sotterranea incastrata tra giustizia e finanza: voci di vendita, figure di vertice condannate, azioni che scendono. E, in mezzo a tutto questo, ventimila famiglie astigiane attendono risposte sul futuro dei loro investimenti.

Il maquillage al bilancio

Serve un flashback, come in tutti i film che si rispettano. Nel 2017, la Guardia di Finanza apre un fascicolo in cui si ipotizza il reato di falso in bilancio. Dopo quasi sei anni di indagini e udienze a Palazzo di Giustizia, il 31 maggio 2023, l’amministratore delegato Carlo Demartini è condannato a due anni e otto mesi per “false comunicazioni”. Una sentenza che lo condanna in primo grado, intendiamoci: il processo d’appello potrebbe iniziare nei prossimi giorni.

Secondo i giudici, Demartini avrebbe fatto in modo di inserire a bilancio, come crediti da riscuotere, una serie di finanziamenti che il linguaggio bancario definisce “deteriorati”: in parole più semplici, soldi prestati a persone non più in grado di restituire il dovuto. Tra questi anche l’immobiliarista Alberto Fassio, nel frattempo morto d’infarto, storico patron del Callianetto, il Real Madrid del tamburello che nei primi anni Duemila collezionava coppe e scudetti. Una cifra non indifferente, che i periti del tribunale hanno calcolato intorno ai 35 milioni di euro, abbastanza per far apparire la banca più forte di quanto non fosse in realtà ed evitare che le azioni dell’istituto perdessero valore.

Da “Mamma cassa” a matrigna

La Banca d’Asti è la banca del territorio. Il suo rapporto con i cittadini è profondo: molti hanno un parente o un amico che lavora o ha lavorato in quegli uffici. Non a caso, molti la chiamano ancora “Mamma cassa” in onore delle sue origini da cassa di risparmio che risalgono alla metà dell’Ottocento. Oggi il rapporto tra “mamma” e figli, passato indenne attraverso le vicende giudiziarie, sembra essersi incrinato in una sorta di psicodramma con una data d’inizio ben precisa: il 7 novembre del 2024.

Serve un altro passo indietro: quattro mesi prima, il 12 luglio, la Fondazione CrAsti aveva cambiato il suo vertice. Mario Sacco, un dirigente che nell’Astigiano ha presieduto un po’ di tutto – dalla Camera di Commercio alla Fondazione Asti Musei – aveva dovuto abbandonare la poltrona di presidente dopo otto anni di regno incontrastato. La politica locale ci aveva anche provato a lasciarlo al suo posto: Marcello Coppo, ex vicesindaco atterrato alla Camera nella truppa di Giorgia Meloni, aveva proposto un emendamento per abolire il limite del doppio mandato, ma il tentativo si era arenato nei meandri di Montecitorio.

A Sacco subentra Livio Negro, sessantenne imprenditore informatico, ma anche presidente del Parco Paleontologico e proprietario delle Cattedrali, un relais di lusso sulle colline alle porte della città che ai clienti offre anche un ristorante curato da Antonino Cannavacciuolo: un “privato”, dopo tanta politica. Negro – che nella sfida per la fondazione aveva battuto l’ex presidente della banca Aldo Pia – fa qualche conto sul bilancio, poi convoca i sindaci della provincia e i presidenti delle associazioni di volontariato, tradizionali beneficiari dei contributi della fondazione. E lì butta la bomba.

Siamo al 7 novembre che ha cambiato forse per sempre il rapporto tra la banca e la città. «Gli investimenti della fondazione rendono poco», dice Negro alla platea, riunita nell’aula magna di ASTISS, il consorzio universitario astigiano. «Per questo i contributi che abbiamo erogato al territorio sono calati in dieci anni da cinque milioni di euro a poco più di tre».

Bisogna vendere

Quando un investimento non è abbastanza produttivo bisognerebbe cambiare strada, e farlo prima che diventi troppo tardi. In questo caso, però, la cosa non è così semplice, visto che l’80 per cento del patrimonio della Fondazione CrAsti è concentrato in azioni della Banca d’Asti, pari al 31,8 per cento del valore complessivo dell’istituto. Bisogna vendere, dice Negro, tanto più che un accordo firmato nel 2015 con il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) e l’ACRI (l’associazione che rappresenta fondazioni e casse di risparmio), impedirebbe alle fondazioni bancarie di investire più di un terzo del capitale nel proprio istituto di riferimento. Una norma sulla quale, per quasi dieci anni, Asti era rimasta in silenzio: «Non si parla della banca», era la prima regola.

Non a caso, quando si comincia a parlare, le voci di vendita fanno scoppiare il finimondo. Perché cedere quelle quote significa portare il controllo della banca lontano da Asti. Per rispettare i limiti previsti dall’accordo tra ACRI e MEF, la fondazione dovrebbe scendere dal 31,8 al 13-14 per cento del pacchetto azionario della banca. I conti sono presto fatti: gli altri principali azionisti sono la Fondazione Cassa di Risparmio di Biella (12,91 per cento), il Banco Bpm (9,99 per cento), la Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli (4,2 per cento) e la Fondazione CRT di Torino (6 per cento), mentre il resto è dei privati. Il nuovo acquirente, con il 17-18 per cento rilevato dalla Fondazione CrAsti, otterrebbe la maggioranza relativa.

I numeri e la teoria dicono che, invece di vendere a un solo soggetto, la fondazione potrebbe dividere il pacchetto tra più acquirenti in modo da non perdere il controllo della banca, sia pure con un margine ridotto. La realtà dice altro, perché cedere le azioni della Banca di Asti è difficilissimo. Sono quotate su un mercato ristretto, il Vortel, non sono soggette a molti scambi e tutti gli economisti sono concordi nel definirle «illiquide», praticamente impossibili da scambiare. Per questo è inevitabile trovare qualcuno che se le accolli tutte in un solo colpo.

Nei mesi scorsi si erano fatti sotto il Banco di Desio e la Popolare di Sondrio, fino a che quest’ultima non era finita a sua volta nel mirino di una banca più grande, la BPER di Modena. Nel complicato risiko degli istituti bancari i riflettori si sono allontanati da Asti, ma l’idea di vendere resta: ad aprile, la Fondazione CrAsti ha nominato un advisor per fare ancora più chiarezza sui suoi conti e investimenti. La scelta è caduta su Equita, una società non del tutto estranea all’Astigiano: Antonio Scarabosio – partner di Equita Mid Cap Advisory – è nipote dell’ex senatore di Forza Italia Aldo Scarabosio, astigiano d’origine e politicamente vicino a Maria Teresa Armosino, presidente della Provincia fino al 2014.

Le famiglie senza risposta

In tutto questo spicca il silenzio degli oltre 20 mila piccoli azionisti, quelli che il gergo della finanza definisce con disprezzo il “parco buoi”: i correntisti che con le loro piccole quote frazionate detengono il 35,1 per cento delle azioni senza contare nulla. Sono le famiglie astigiane che hanno dato fiducia a “Mamma cassa” e non sono state ricambiate, diventando protagoniste di un crowdfunding forzato volto a finanziare la solidità della banca. Ora si ritrovano in mano titoli in caduta libera senza la possibilità di venderli.

Per “difenderli”, la banca ha creato un’associazione, affidando la presidenza all’ex capo dell’ufficio legale Pierfranco Marrandino. Ma è un’associazione che funziona a modo suo: si convocano le assemblee, ma le si svolge seguendo ancora le restrizioni del Covid-19. All’ultima, il 17 aprile scorso, i partecipanti erano tutti in remoto. I soci erano presenti con un solo rappresentante, nominato direttamente dalla banca.

Intanto l’istituto ha aperto i cordoni della borsa. Dopo la bufera legata alla condanna di Demartini, che è rimasto al suo posto e attende il processo d’appello, ha concesso 10 centesimi di dividendo in più ad azione. L’ultimo controllo di Bankitalia è dell’ottobre scorso: nel verbale si parla di un istituto «solido e patrimonializzato, ma che pecca ancora di trasparenza». D’altra parte, la prima regola della banca è sempre quella: «Non si parla della banca».

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