Continua lo scontro tra Fondazione e Banca: servono nuovi vertici
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La Fondazione CrAsti ha dato mandato alla “Spencer Stuard”, una società specializzata nel reclutare figure dirigenziali, di trovare i nuovi vertici della Banca di Asti. «Serve un cambio di governance per permettere alla Banca di essere più redditizia e staccare dividendi più corposi», ha spiegato Livio Negro, presidente della Fondazione, in un’intervista al quotidiano Milano Finanza. «Dal nuovo CDA [la Fondazione nomina sette membri su tredici, tra cui amministratore delegato e presidente, ndr] ci aspettiamo un piano industriale più credibile dei precedenti. Altrimenti dovremo affidarci a un istituto più grande, tema su cui stimolerò un dibattito interno alla Fondazione».
Questo mentre infuria la polemica sul valore delle azioni e sulla paventata cessione della Banca. «Come ente dobbiamo pensare prima di tutto a ciò che è meglio per il territorio – ha detto ancora Negro –. CrAsti ha chiuso il 2024 con 51 milioni di utili mentre Banca di Alba, che ha la metà del patrimonio (560 milioni contro 1,1 miliardi) è arrivata a 80 milioni. C’è un tema evidente di redditività, che si ripercuote sulle cedole: le nostre sono ben più basse di quelle incassate dagli altri enti bancari, persino da quelli soci di istituti minori. Problema che può mettere a rischio il futuro della Fondazione».
Il mantra del “territorio”
“Territorio” è una parola che ricorre spesso nella battaglia che da mesi attraversa quella che un tempo gli astigiani definivano “mamma Cassa”, per sancire lo storico legame tra i cittadini e l’istituto. La usa Negro, e la usa spesso anche il management della Banca, che ama definirsi “del territorio” ma non ha mai risposto alle diverse associazioni provinciali (da Asti oltre alla Fondazione Goria) che chiedono spiegazioni sul crollo delle azioni della Banca, preoccupazione non indifferente per oltre 22 mila famiglie che ai titoli di “mamma Cassa” avevano affidato i loro risparmi. Dell’argomento, l’amministratore delegato Carlo Demartini non ha mai parlato con gli azionisti, visto che dal 2020 non viene convocata un’assemblea dei soci in presenza (nelle riunioni online i “piccoli” sono rappresentati da un unico delegato, peraltro ex dirigente della Banca). E anche con i giornali le sue risposte sono state spesso controllate e sfuggenti.
In una recente intervista a Nordovest Economia, il supplemento locale de La Stampa, Demartini ha citato numeri a profusione: «Negli ultimi tre anni – ha detto – [abbiamo] finanziato le imprese con 2 miliardi di euro, di cui 1,5 miliardi in Piemonte, supportato privati e famiglie con 1,5 miliardi di euro, aver restituito al territorio solo nel 2024, in tasse, retribuzioni e dividendi, 225 milioni di euro, oltre 3 miliardi di euro dal 2011 a oggi. E significa infine occupare oltre 2.200 persone, con quasi mille nuove assunzioni negli ultimi dieci anni, in molti casi giovani al primo impiego».
Sul valore delle azioni, dimezzato rispetto ai 16 euro del prezzo di emissione, soltanto un accenno. Neppure troppo chiaro, per i non addetti ai lavori: «La nostra Banca – ha detto De Martini – è già un polo di attrazione e di creazione di valore, con un patrimonio netto di oltre 1,1 miliardi di euro e indicatori di solidità tra i migliori del settore bancario. Numeri che forse non si riflettono adeguatamente nel prezzo attuale delle azioni, la cui quota unitaria di patrimonio supera in realtà i 16 euro».
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Luci (esposte) e ombre (nascoste)
Le parole del manager hanno provocato la dura reazione di Asti oltre, l’associazione più volte intervenuta nel dibattito sulla Banca a nome dei piccoli azionisti. Perché, si legge in una nota, se i risultati di gestione sono mirabolanti «le azioni hanno perso metà del loro valore […] in una fase storica in cui tutte le banche hanno quotazioni mai viste e hanno prodotto utili fantastici, tanto che si parla di tassare i loro “extraprofitti»? Perché, visto che il valore reale «sarebbe, come afferma l’amministratore delegato, di 16 euro, [le azioni] valgono in realtà la metà e sono così difficili, sia da vendere che da comprare?»
A dire il vero, l’affermazione di Demartini fa riferimento alla “quota unitaria di patrimonio” (o NAV - Net Asset Value), calcolata dividendo il valore totale del patrimonio (attività meno passività) per il numero di quote in circolazione. Ben diverso quindi dal valore di mercato, cioè quello che gli azionisti possono incassare vendendo i loro titoli. Sempre ammesso che ci riescano, perché i titoli della Banca sono quotati su un mercato ristretto – il Vorvel – e questo rende molto difficile trovare potenziali compratori. Tutto corretto, quindi, ma difficile da digerire da chi ha investito nella “sua” banca e si ritrova con il capitale dimezzato.
Nel corso dell’intervista, tra l’altro, Demartini ricorda la graduatoria di Italy’s best employer, redatta dalla piattaforma “Statista” sulla base delle indicazioni dei dipendenti, che ha collocato l’istituto astigiano «al primo posto tra le banche italiane [e al 31° assoluto, ndr] per qualità dell’ambiente di lavoro». Un risultato che ha stupito non poco i sindacati: il 24 febbraio di quest’anno, infatti, la FISAC CGIL aveva pubblicato un comunicato dal segno diametralmente opposto. «Cosa sta succedendo nella quotidianità della rete commerciale di Banca di Asti? Rileviamo un proliferare di richieste, report, monitoraggi sugli appuntamenti, interrogatori a sorpresa e riunioni in pausa pranzo che non fanno altro che creare un ambiente disorganizzato e ansiogeno», si legge nel comunicato. «Ci preme ricordare a colleghe e colleghi che si tratta di atteggiamenti non consentiti dal contratto collettivo nazionale di lavoro ma che le aziende continuano a mettere in gioco nella vana illusione che possano migliorare i risultati commerciali, dimenticando che risultati e motivazione si migliorano con adeguati e trasparenti percorsi professionali e con un clima lavorativo collaborativo ed empatico».
Lo spettro della vendita
In cima alle preoccupazioni della governance c’è la difesa dell’autonomia della Banca (o forse di chi la guida, come pensano i maligni). «Guardando a storie più o meno recenti, come la vicina Alessandria o Sondrio, – ha detto ancora Demartini – chi dice che l’azionista ha guadagnato dalla vendita, dimentica di dire che le banche citate semplicemente non esistono più. E il costo per il territorio è stato evidente». Negro, sull’altro fronte, ha ribattuto: «In assenza di svolte nella gestione saremo costretti ad affidarci a un istituto più grande, con piani industriali ben più ambiziosi e cedole più sostanziose».
Un muro contro muro con poche vie d’uscita. Per essere chiari, la Banca di Asti è certamente patrimonializzata ma lo è con i soldi degli astigiani che hanno comprato le azioni, un investimento che si è rivelato una sorta di beneficenza collettiva. Quei soldi, la Banca li ha messi in cassaforte per evitare che qualcuno possa tentare la scalata all’istituto. Difficile trovare un’intesa tra chi vuole monetizzare e chi vuole consolidarsi.
Non manca, ovviamente, chi la butta in politica. Da una parte ci sarebbe la “sinistra” locale che, abiurata la sua storia, metterebbe a rischio l’autonomia dell’istituto e i posti di lavoro dei dipendenti della Banca di Asti, chiedendo la vendita delle azioni in possesso alla Fondazione a favore di una banca più grande. Dall’altra ci sarebbe la “destra” che invece difende l’istituto, i suoi dipendenti e la sua autonomia.
«Se anche la Fondazione decidesse di vendere per cercare un rendimento un po’ più alto sui propri capitali, bisognerebbe comunque mettere sulla bilancia i costi sociali», ha detto a Il Giornale del Piemonte e della Liguria l’ex vicesindaco Marcello Coppo, oggi deputato e coordinatore cittadino di Fratelli d’Italia. «Nella sede centrale lavorano almeno cinquecento persone, con stipendi che restano sul territorio, alimentando commercio, fornitori, servizi che verrebbero meno se la direzione si spostasse altrove. Non si può parlare di futuro della Banca senza coinvolgere chi ci lavora e chi vive sul territorio. E attenzione: se perdiamo la governance della nostra banca non la recuperiamo più».
Non è uno scontro politico
«Un allarme zeppo di buon senso – commenta Il Giornale –. Mentre la sinistra cittadina esulta alla fusione con partner milanesi, ignorando il rischio di smantellamento della banca (ma non erano loro quelli a favore dei lavoratori?)».
Peccato che Negro, il primo ad affermare pubblicamente che le azioni della Banca di Asti valgono troppo poco, non sia propriamente un uomo di sinistra, tantomeno estrema. Molto vicino all’ex vicepresidente della Regione Piemonte, il leghista Fabio Carosso, era stato eletto alla presidenza con i voti dei consiglieri di indirizzo vicini al sindaco Maurizio Rasero. Per lui avrebbe votato anche il rappresentante della Diocesi, altra realtà non propriamente “comunista”.
In realtà, più che la politica contano i soldi. La Fondazione ha investito in azioni della Banca il 79 per cento del suo capitale e – proprio perché i titoli di piazza Libertà rendono poco – non riesce a erogare sul territorio quanto erogano le altre fondazioni bancarie. Secondo Marco Goria, presidente della Fondazione che porta il nome di suo padre Gianni, primo ministro democristiano e più volte ministro negli anni Ottanta, «la Fondazione CrAlessandria, con un patrimonio inferiore di 20 milioni rispetto ad Asti eroga quattro volte di più». Lo stesso sindaco Maurizio Rasero, nel suo intervento al Consiglio comunale del 3 dicembre scorso, ha sottolineato come la Fondazione di Cuneo quando investiva solo in azioni della “sua” banca erogava 6 milioni di euro, dopo la diversificazione quasi 70 milioni.
Lo scontro non è “destra” contro “sinistra” e non è politico, è molto più “basso”: si parla di borsellino di famiglie, non di alta finanza. C’è un imprenditore, legato al centrodestra (Livio Negro) che sta ragionando da imprenditore: nessun capitano d’azienda investirebbe quasi l’80 del suo capitale in un singolo titolo azionario, ancora meno se questo non rende. Ci sono poi associazioni sul territorio e amministrazioni comunali che non prendono soldi dalla Fondazione perché questa ne ha meno di quanti ne potrebbe avere. Infine, ci sono decine di migliaia di famiglie che si domandano perché hanno pagato 16 euro qualcosa che adesso ne vale 8.
«Resto convinto che lo scopo di una banca come la nostra sia si quello di staccare cedole, ma anche di essere concretamente vicino alle famiglie e alle aziende dei territori dove operiamo», ha commentato l’amministratore delegato De Martini nella sua intervista a Nordovest Economia. Attenzione: l’ad ha parlato al plurale, ha detto «territori». Forse un lapsus, ma la frase sembra rivolta più ai clienti delle cinque regioni del Nord in cui è presente la Banca d’Asti, piuttosto che alle sole famiglie astigiane che, con i loro soldi, ne hanno preservato l’autonomia.
Questa puntata di L’Unica Asti termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.
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