Il mostro sepolto sotto la “fabbrica dei bulloni”

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Ad Asti c’è un mostro. Si annida nelle viscere della città e si nasconde così bene che molti hanno dimenticato la sua esistenza. Alle ultime elezioni comunali più di un candidato aveva proposto di aprire una start up, o una cittadella dell’energia, o qualsiasi altra cosa sull’area che per più di un secolo aveva ospitato lo stabilimento della Way-Assauto: sette ettari alla periferia sud-est della città che in un passato lontano avevano visto crescere un convento degli Agostiniani Scalzi, distrutto dal feroce Maramaldo nell’assedio del 1526. Proposte vane, da politici in campagna elettorale. O da smemorati, perché lì non si può costruire niente. Perché lì c’è lui: la belva che dorme nel sottosuolo come l’It di Stephen King nelle fogne, il mostro che non si fa vedere, il cromo esavalente.
La storia della fabrica dei bulùn, così la chiamavano in dialetto i primi operai, comincia nel 1907. Con i suoi trecento lavoratori – per dare un’idea la Fiat del tempo ne aveva 2.500 – la Way-Assauto produce bulloni e dadi in metallo, oltre che materiali per l’edilizia e parti meccaniche. Durante la Grande Guerra l’azienda si specializza in inneschi per artiglieria ancor prima dell’ingresso dell’Italia nel conflitto: detonatori e spolette vengono venduti all’esercito francese, sceso nelle trincee fin dal 1914. Dopo il 24 maggio che fece mormorare il Piave al passaggio dei primi fanti, la fabbrica è già pronta per soddisfare le necessità militari italiane. Finito il conflitto si converte all’industria civile, con un’alternanza che si ripete pari pari durante e dopo la seconda guerra. Nel 1948, quando Gino Bartali vince il Tour de France nei giorni dell’attentato a Togliatti – in un entusiasmo generale che secondo molti salva l’Italia da una gigantesca rivolta popolare – le parti rotanti della sua bicicletta venivano da qui.
Dagli anni Cinquanta l’azienda produce ammortizzatori per auto destinati alla Fiat, diventando l’emblema del movimento operaio astigiano con quattromila dipendenti. Dopo il boom, il crollo, legato alla crisi dell’automotive: alcuni passaggi di proprietà ne allungano l’agonia, ma nel 2010 la vecchia Way-Assauto fallisce. Sei anni più tardi un gruppo cinese acquista ciò che resta dell’azienda e trasferisce la produzione a Valgera, una frazione a nord della città, e la grande fabbrica diventa un deserto.
L’acqua gialla e torbida
Nel 1999 un abitante del villaggio San Fedele, quartiere di periferia a valle dello stabilimento, butta un secchio nel pozzo di casa. Tira su un liquido torbido e giallo, ne riempie una bottiglietta e la porta all’ARPA, l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente. Si scopre così che la Way-Assauto non si è lasciata alle spalle soltanto centinaia di posti di lavoro perduti, ma anche un devastante inquinamento delle falde acquifere: per decenni l’azienda aveva riversato nel terreno cromo esavalente e solventi come la trielina, scarti della produzione industriale classificati come cancerogeni.
La lotta ai veleni scatta subito: nel 2000 nasce il Comitato San Fedele contro l’inquinamento delle falde. Si forma un’unità di crisi, che lavora bene: oggi la situazione non è più ai livelli di venticinque anni fa, i lavori di bonifica sono iniziati e molti sono a buon punto. Il quartiere è protetto da quella che i tecnici chiamano “barriera idrodinamica”, una serie di pozzi a pressione negativa che purificano l’acqua. Le cisterne che gli abitanti di San Fedele usano per l’irrigazione vengono monitorate di continuo, perché i solventi velenosi sono volatili: se fossero presenti nell’acqua usata per bagnare i campi finirebbero per essere inalati dalle persone. Ancora oggi qualche pozzo viene chiuso, a seguito dei movimenti delle falde acquifere in questi tempi di siccità. Passi in avanti importanti, che hanno fatto sì che del “mostro” di Asti non parli (quasi) più nessuno.
La belva venti metri sotto terra
Lui, però, non se n’è mai andato: si nasconde ancora sotto la palazzina della “nuova cromatura”, sepolto a venti metri di profondità. Il cromo è un metallo, si è infilato nel terreno e da lì continua a far male, tanto che le norme chiedono di non sostare in zona per più di qualche ora. Tutto intorno gli è stata creata una tomba all’avanguardia, con barriere di fanghi a base di “bentonite”, un’argilla ricca di minerali in grado di trattenere l’acqua. Ma le preoccupazioni restano. La protezione reggerà? Quanto potrebbero incidere sulla sua tenuta un assestamento della falda o un terremoto anche modesto? La belva che dorme nella gabbia è ben sorvegliata, ma una sua fuga non è del tutto impossibile: il suo cuore velenoso non è stato rimosso, i costi per un tale intervento risolutivo sarebbero stati insostenibili.
Qualche proposta c’è stata. Uno studio dell’Università di Genova aveva presentato un progetto unico al mondo per rendere il mostro innocuo per sempre: metterlo a contatto con una serie di barriere reattive di ferro. Il cromo avrebbe reagito ossidandosi, un processo che lo avrebbe ridotto da esavalente a trivalente: non proprio acqua fresca, ma sempre meglio di niente. L’idea, però, è rimasta sulla carta e il veleno è ancora lì, forte come prima.
Come soggetto per un film horror potrebbe anche bastare, ma non è ancora finita: intanto sono rimasti anche i solventi, bloccati dalle stesse barriere che fermano il cromo; poi – e questa è la forse la parte più inquietante – non possiamo essere sicuri che il mostro sia solo. Nei primi anni 2000 quando si parlava di trasferire la fabbrica, i possibili acquirenti fecero notare che i costi di demolizione e ricostruzione non potevano essere calcolati, perché nessuno può sapere che cosa ci sia davvero lì sotto dopo cento anni di industria pesante: il cromo potrebbe essere solo la punta dell’iceberg.
L’esempio di “Erin Brockovich”
Di chi è la colpa? Qui la storia si fa complessa, e attraversa l’intera parabola dell’azienda, dalle continue espansioni degli anni d’oro all’alternarsi dei proprietari nei tempi di crisi. Secondo le ricostruzioni dei tecnici ambientali della Provincia di Asti, che hanno portato in tribunale decine e decine di faldoni, l’inquinamento sarebbe partito negli anni Sessanta dallo stabilimento della “vecchissima cromatura”. Da qui, nei decenni successivi, sarebbe passato a quello della “vecchia” e della “nuova cromatura”. Stabilimenti sempre più grandi, e sempre più velenosi.
La ricerca dei responsabili è una scala dai gradini infiniti, come la Fiera dell’Est di Angelo Branduardi. Fino al 1975 la proprietà era stata in capo alla Way-Assauto, passata poi alla IAO, a sua volta acquisita nell’81 da Siette Spa, con partecipazioni anche di Alcatel, a sua volta incorporata dal colosso finlandese Nokia. Ognuna di queste società ha presentato ricorsi su ricorsi per evitare di pagare le bonifiche. Tutte sostengono di essere in buona fede: nei primi anni Ottanta la trielina era un solvente di uso comune e il cromo veniva regolarmente usato nell’industria, nessuno poteva immaginare che fossero pericolosi. Versioni che si scontrano con i ricordi degli operai dell’epoca che raccontano come ogni giorno, dopo qualche ora di lavoro, venisse dato loro un bicchiere di latte. «Da bere contro i veleni».
Venticinque anni fa, grazie a “Erin Brockovich” – il film con Julia Roberts che raccontava la storia (vera) di un caso di inquinamento da cromo esavalente in California – a San Fedele erano arrivate le telecamere e si era tornati a parlare dei veleni di Asti. Poi la politica industriale e l’ignavia della politica astigiana hanno fatto la loro parte. Oggi la grande fabbrica è morta, resta il suo enorme cadavere di sette ettari adagiato sulla città: uno sporco e pericoloso nido di mostri, alcuni ancora senza nome. In tutti questi anni nessuno ha mai svolto un’analisi seria e approfondita sull’incidenza delle morti di tumore al villaggio San Fedele. Forse, come il comitato di quartiere chiede da sempre, sarebbe ora di tirare fuori quelle cifre. Per sapere, finalmente, tutta la verità.
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