Chi paga? I conti in tasca al Festival delle Sagre

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Al termine di un cena al ristorante ci si alza e si vanno a fare i conti alla cassa. Al Festival delle Sagre, l’evento enogastronomico che ogni settembre trasforma Asti in un gigantesco ristorante all’aperto, le cose non sono poi molto diverse: dopo che ognuno dei 140 mila piatti serviti e delle seimila bottiglie di vino stappate nel weekend del 13-14 settembre sono stati pagati alle pro loco dai visitatori, qualcuno dovrà saldare i costi dell’organizzazione. E qui partono le domande. Chi paga? E soprattutto, si paga alla romana? Ognuno paga il suo? Ci sarà uno che offre a tutti?
Le risposte non sono un segreto, ma alla fine qualche dubbio rimane. Il conto dell’organizzazione della cena del sabato e dei successivi servizi della domenica è sempre salato: quest’anno è stato di 331 mila euro contro i 313 mila del 2024. A pagarlo saranno il Comune (120 mila euro), la Camera di commercio, la Fondazione CrAsti e l’Unione nazionale delle pro loco italiane (UNPLI) che ha raccolto le quote dalle ventinove pro loco che hanno partecipato a questa edizione (un’interpellanza del consigliere di opposizione Roberto Migliasso ha indicato per queste ultime le cifre di 75, 50 e 86 mila euro, in linea con il bilancio del 2024).
Numeri da interpretare
Ogni pro loco, per allestire la sua “casetta” in piazza del Palio e servire i suoi piatti ai visitatori versa una quota. Una cifra che è calcolata sulla base delle porzioni vendute l’anno precedente: chi ha guadagnato di più l’anno prima, pagherà di più l’anno dopo. Si può arrivare anche fino a 8 mila euro per le pro loco più frequentate, chi invece l’anno prima non aveva partecipato paga la cifra simbolica di mille euro.
Quest’anno in piazza del Palio erano rappresentati 28 paesi astigiani più uno: Milena, una cittadina di 2.600 abitanti in provincia di Caltanissetta che dagli anni Sessanta ha un forte legame con Asti. «Un rapporto che affonda le sue radici nel periodo dell’emigrazione dal Sud al Nord Italia», ha spiegato il sindaco Maurizio Rasero. «Siamo orgogliosi della prima generazione dei nostri concittadini di Milena, venuti umilmente ad Asti con la valigia di cartone per far crescere il territorio».
Le cifre – in due giorni 140 mila piatti, seimila bottiglie – sono imponenti. Le dichiarazioni ufficiali pure. Per il sindaco, il Festival «si conferma uno degli appuntamenti più identitari e partecipati della città». Per Riccardo Origlia, assessore alle Manifestazioni, «tutta la città ne ha beneficiato: locali e attività commerciali pieni». Antonino La Spina, presidente di UNPLI, parla di «orgoglio». Vitaliano Macario, presidente del Consorzio del Barbera, esprime «soddisfazione».
Tutto vero, è stata o no un’edizione da record? Qui la risposta si fa complessa. Perché il Festival delle Sagre ha avuto un prima e un dopo. E lo spartiacque è stato il Covid-19.
Cinquant’anni di storia
Il Festival era nato nel 1974, in tempi non facili per il vino. Solo pochi mesi dopo, i viticoltori francesi avevano scatenato una dura protesta contro l’importazione di bottiglie italiane tanto da bloccarne l’arrivo nei porti o lungo le strade di confine. Asti, in quella che i media dell’epoca avevano definito la “guerra del vino” aveva fatto la sua parte: prima invitando una delegazione di produttori francesi alla Douja d’Or, l’evento nato solo otto anni prima ma già considerato un appuntamento enologico tra i più rilevanti d’Italia. Poi, assegnando il premio “Uomo dell’anno per il vino” al socialista francese Georges Spénale, l’allora presidente del Parlamento europeo, «per l’impegno, l’intelligenza e la fermezza con cui nelle assise internazionali ha difeso la causa e la civiltà del vino contro l’insidia di interessi avversi o il prevalere eccessivo del sostegno ad altre produzioni».
Mentre intrecciava questi rapporti internazionali, l’allora presidente della Camera di commercio Giovanni Borello – organizzatore della Douja – aveva lanciato il progetto del Festival delle Sagre riservato alle pro loco della provincia. Borello, imprenditore artigiano del settore dei marmi, non era un personaggio qualunque nella politica astigiana dell’epoca: tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta è stato il leader della potente Democrazia Cristiana locale. Era stato alla presidenza della Banca di Asti (all’epoca Cassa di Risparmio), della Cassa Depositi e Prestiti nazionale. Nel “circolo” da lui creato, il Gruppo Marcora, erano nate “politicamente” personalità del calibro di Giovanni Goria (presidente del Consiglio dei ministri dal 1987 al 1988 e più volte alla guida di dicasteri finanziari), oppure Aldo Pia (presidente di Banca di Asti dal 2004 al 2020, per citare solo una delle mille cariche ricoperte in città negli ultimi quarant’anni).
L’idea di Borello era suggestiva: portare in città la tradizione dei piatti contadini, consentendo ai visitatori di assaggiare tutte le specialità dei pais – i paesi – senza muoversi dal centro. Alla prima edizione parteciparono tredici pro loco. Poi il numero andò via via aumentando, fino a raggiungere il record di 41 nelle edizioni del 2018 e del 2019.
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Dopo il Covid, il Festival non si tenne per due anni. Quando rinacque, nel 2022, era profondamente cambiato. La Camera di commercio di Asti, che fino al 2019 aveva curato direttamente l’organizzazione, fece un passo indietro. Nel 2020 si era accorpata con la Camera di Alessandria, aveva subìto tagli di personale e, come ha ricordato a L’Unica il presidente Gian Paolo Coscia, «non aveva più le professionalità adeguate» per organizzare il Festival.
Tra i molti dipendenti andati in pensione, infatti, c’era anche Silvana Negro, la storica funzionaria che – assunta da Giovanni Borello nel 1980 – si era occupata del Festival per quattro decenni: «Per tanti anni – aveva raccontato in un’intervista a La Nuova Provincia – sono stata accanto a Borello e alla sua squadra nell’organizzazione del Festival, seguendo ogni singola riflessione su quello cui lui puntava, respirando il senso della sua idea di manifestazione».
Il sindaco Rasero non volle rinunciare al Festival e il Comune si prese sulle spalle l’organizzazione. Silvana Negro, a La Stampa, aveva lasciato aperto uno spiraglio: «Se servirà, metterò volentieri a disposizione la mia lunga esperienza», aveva detto. Rasero la prese in parola, arruolandola come volontaria senza stipendio e affiancandola ai dipendenti comunali nell’organizzazione del Festival.
I due anni di sosta, però, avevano lasciato il segno: delle quarantuno pro loco che avevano preso parte all’edizione del 2019, se ne presentarono soltanto tredici. E con molti dubbi, a partire dalla location: Piazza del Palio – una delle più grandi d’Italia con i suoi 56 mila metri quadrati – appariva sovradimensionata e le casette della pro loco furono montate in piazza Alfieri, dove tutto era nato nel 1975.
Non era soltanto un problema di costi. I tagli di personale, infatti, non avevano toccato solo la Camera di commercio: le stesse pro loco erano in difficoltà. E lo sono tuttora: «Manca il ricambio generazionale», ha detto a L’Unica Flaviano Penna, presidente della pro loco di Grazzano Badoglio. «I vecchi sono diventati più vecchi o sono morti durante la pandemia e i giovani hanno altri interessi. Noi passavamo le giornate nelle piazze del paese, loro con una app prenotano il treno per andare a Torino e Milano». Un aspetto secondario, ma non irrilevante, del calo demografico sempre più marcato in provincia. Le nascite diminuiscono, i giovani non si fermano in paesi svuotati da servizi come banche o poste. I negozi di prossimità non ci sono più perché la gente del territorio va a fare la spesa nei supermercati dei centri più grandi. Mancano i medici – soprattutto i pediatri, che sono meno di 30 in una provincia con 215 mila abitanti – le edicole chiudono e le farmacie anche.
Nei piccoli comuni rimangono in pochi a portare avanti le tradizioni. Inoltre, organizzare il Festival delle Sagre per una pro loco non è né semplice né poco costoso. Alla tassa d’ingresso da versare per l’organizzazione si sommano la spesa per la casetta, le materie prime, il gas, i corsi per l’abilitazione alla somministrazione. Il tutto con la speranza che non piova e che i visitatori arrivino in massa per consumare. Un azzardo che non si può fare da soli. Servono almeno un centinaio di persone, tra cucine, servizio, casse, allestimento casette e sfilata della domenica mattina. Servono, ma non sempre si trovano.
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Il ruolo (e i soldi) degli sponsor
A sopperire alla questione economica potrebbero intervenire gli sponsor. Ma qui non mancano le polemiche. Nella sua già citata interpellanza, il consigliere Migliasso – eletto nella lista civica di opposizione “Prendiamoci cura di Asti” – chiede quale sarà l’importo effettivo che sarà versato dal Consorzio della Barbera e dei vini del Monferrato. «Il meccanismo di contribuzione è complesso e si basa sul calcolo dei bicchieri venduti alla “Cantina delle Sagre” durante la manifestazione», ha spiegato Migliasso a L’Unica.
Il ruolo del Consorzio nell’edizione 2025, infatti, è stato duplice: da un lato sponsor, dall’altro gestore della “Cantina”, l’unica struttura autorizzata a vendere vino ai visitatori, costretti così a una duplice coda, una alle casette per mangiare, un’altra alla “Cantina” per bere.
Ma quanto paga il Consorzio? Il calcolo è, appunto, «complesso». La cifra stanziata è di 15 mila euro (più altri 10 mila destinati alla tensostruttura che a novembre ospiterà in piazza San Secondo la manifestazione “I gioielli del territorio” dedicata al tartufo bianco). Fin qui la cosa non sembra troppo complicata, ma c’è un “ma”: «I primi 10 mila euro arriveranno solo se la “Cantina” avrà venduto almeno 35 mila bicchieri, e per ogni ulteriore bicchiere venduto sarà versata la cifra di 1,5 euro», ha aggiunto Migliasso. Fatti i conti, per arrivare a quota 15 mila euro, bisogna vendere almeno 38.333 bicchieri, più qualche goccia (10 mila euro dai primi 35 mila bicchieri, più altri 3.333 bicchieri a 1,5 euro l’uno. Dai bicchieri venduti a 1,5 euro l’uno si ottengono 4999 euro e 50 centesimi che, sommati ai 10 mila iniziali, portano a circa 15 mila euro).
Al di là della complessità dei calcoli, un accordo del genere lascia aperti molti dubbi: cosa succede se non si vende abbastanza? E se si vende tanto da superare quota 15 mila euro? «Sono tutte domande che ho proposto nella mia interrogazione – ha detto il consigliere – insieme alla richiesta di avere il numero preciso dei bicchieri venduti dal Consorzio. Con questo accordo il Consorzio non rischia nulla e il Comune molto, meglio sarebbe comprare direttamente il vino dal Consorzio e darlo in gestione alle singole pro loco: almeno si sarebbero evitate le due code e i paesi avrebbero potuto guadagnare anche dalla vendita del vino».
Per capire se il Comune ci ha rimesso o meno, quindi, bisogna letteralmente contare i bicchieri. Dati ufficiali non ce ne sono, ma le prime voci raccolte parlano di una cifra intorno ai 36 mila, insufficiente per ottenere l’intero contributo. «C’è stata una grande partecipazione, sicuramente abbiamo venduto più di 35 mila bicchieri ma è ancora troppo presto per avere il bilancio finale», ha detto a L’Unica Filippo Mobrici, vicepresidente del Consorzio.
In ogni caso – bicchiere più bicchiere meno – per Mobrici quella di quest’anno è una manifestazione da ricordare e da replicare: «C’erano molti giovani, ed è stato un bene, perché sono loro il futuro del mondo del vino, un settore trainante per l’intero territorio. E poi abbiamo investito molto anche in professionalità, a mescere e a consigliare le persone sul vino giusto da abbinare al cibo che avevano scelto c’era il personale dell’AIS, l’Associazione nazionale dei sommelier. La qualità dell’offerta è stata eccellente».
Mentre si contano i calici (e gli euro) un dubbio rimane. Cinquant’anni fa – alle “feste dei paisan”, come gli astigiani di città ribattezzarono le prime edizioni del Festival delle Sagre – chissà se Giovanni Borello, rigido custode della tradizione, avrebbe visto bene i sommelier tra gli agnolotti d’asino, il vitello tonnato e le friciule portati in piazza dai contadini.
Questa puntata di L’Unica Asti termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.
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