Il futuro dell’acciaieria di Novi dipende anche da Taranto

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Faccelo sapere quiLo stabilimento è fermo dal 14 luglio: 550 dipendenti sono in attesa di conoscere il loro futuro, oltre 100 si sono dimessi per trovare un lavoro più sicuro, almeno 200 persone impegnate nell’indotto stanno con il fiato sospeso, milioni di metri quadrati che un tempo erano il fulcro dell’economia locale e che oggi sono un deserto in attesa di risposte.
Per l’insediamento siderurgico di Novi Ligure le cifre della crisi sono queste, ma come sempre i numeri non bastano per raccontare la vita delle famiglie sull’orlo del baratro: gli affitti da pagare, le bollette, i libri per la scuola che sta per ricominciare, un futuro che sembra molto più che appannato. Perché questa paralisi non è isolata, ma riflette la crisi profonda di “Acciaierie d’Italia”, la regina decaduta della siderurgia italiana con stabilimenti a Taranto, Genova, Racconigi e Novi. Le radici della crisi stanno altrove, e da altrove dovranno arrivare le soluzioni. Novi, al momento, non può far altro che stare a guardare. «La fabbrica dovrebbe riaprire il 1° settembre: da oltre un mese non arriva materiale da Taranto e non si può lavorare», spiega a L’Unica il sindaco Rocchino Muliere, senza nascondere un filo d’angoscia. «Non c’è mai stato un periodo di sospensione dal lavoro così lungo», aggiunge.
La paura della città
Muliere, sindaco del Partito Democratico, ha una lunga carriera politica alle spalle e due anni fa si è ripreso il municipio che aveva perso nel 2019, battuto per neppure trecento voti dal leghista Gianpaolo Cabella: una sconfitta epocale – mai nel dopoguerra il centrodestra aveva vinto a Novi – archiviata nel giro di un paio d’anni. La giunta Cabella era implosa per le dimissioni in massa dei consiglieri comunali e Muliere era tornato in sella, commosso e acclamato sul palco da Elly Schlein.
«Il futuro dell’ex Ilva è determinante. Abbiamo tante industrie nel settore dolciario e farmaceutico, ma la siderurgica ha una ricaduta enorme su pagamenti e consumi. L’impatto sociale ed economico sarebbe devastante», dice il sindaco. «Salvare il futuro produttivo dell’azienda è un imperativo. I lavoratori sono sempre stati molto responsabili, non possiamo mantenerli nell’incertezza: da troppo tempo nello stabilimento si lavorava ai minimi termini. Ora aspettiamo la soluzione, speriamo in un chiarimento per Taranto e rispetto alla manifestazione di interesse che vuole riaprire il ministero».
“Acciaierie d’Italia” è in amministrazione straordinaria da oltre un anno. A Roma, un recente accordo ha esteso la cassa integrazione a rotazione, portando da tre a quattromila i lavoratori coinvolti su scala nazionale. Una misura percepita dai sindacati come un tampone in un contesto sempre più fragile. Il reparto chiave dello stabilimento, il decatreno – quello che in termini tecnici si definisce “decappaggio ad acido cloridrico a laminazione a freddo” – ha esaurito le scorte di materia prima, provocando il progressivo fermo degli altri reparti. I sindacati interni denunciano condizioni insostenibili: manutenzione rinviata per mancanza di fondi, assenza di piani industriali e comunicazioni ministeriali definite «surreali». Secondo la FIOM-CGIL, a fronte di una produzione che a Novi è crollata da un milione e mezzo a 300 mila tonnellate annue, le prospettive sull’occupazione paventano il rischio di una “bomba sociale”.
Restare uniti per guardare avanti
Le possibili soluzioni arrivate da Roma, a Novi piacciono poco. Per non dire nulla: «I sindacati, il tavolo regionale convocato dal governatore e io siamo sempre stati per mantenere l’unità del Gruppo. Ma ci sono state spinte da più parti, anche dal ministro Urso, verso quello che hanno chiamato “spacchettamento”: da una parte Taranto, Genova, Novi e Racconigi dall’altra. Noi, a questa ipotesi, diciamo fortemente no», taglia corto il sindaco. Dalla Liguria si è fatta avanti anche una proposta green, con la costruzione di un forno elettrico – meno impattante sul piano ambientale – nello stabilimento di Genova. «Noi non siamo contrari – commenta Muliere – ma vogliamo capire meglio il progetto, anche perché per realizzarlo ci vorrà qualche anno. E poi serve una riflessione più ampia: bisogna decidere se in Italia sia ancora utile produrre acciaio per le esigenze di tutte le filiere industriali, o se vogliano dipendere da altri Paesi».
L’Italia, oggi, resta il secondo produttore europeo di acciaio dopo la Germania, ma dal 2023 la produzione è diminuita. L’anno scorso il bilancio ha registrato un calo del 5 per cento rispetto all’anno precedente. L’80 per cento è acciaio “secondario”, ricavato dalla fusione di rottami di ferro all’interno di forni elettrici. Il restante 20 per cento è materiale “primario”, con ferro e carbone come materie prime, lavorate negli altiforni: tecnologie inquinanti, applicate soltanto a Taranto, dove il danno ambientale è stato pesante ed è difficilmente sanabile se non a costi molto elevati. Novi, invece, si occupa della lavorazione del materiale grezzo, con una destinazione che va quasi esclusivamente al mercato dell’automotive.
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Il passato glorioso: da “ferriera” locale a polo siderurgico
L’acciaio è parte della storia di Novi Ligure da più di un secolo. Tutto comincia nel maggio 1912, con la costituzione della Società anonima ferriera di Novi Ligure, focalizzata sulla produzione di ferro e acciaio, sfruttando un forno per la lavorazione. Lo stabilimento San Rocco fu inaugurato nel 1913, in una zona strategica per i collegamenti ferroviari, contribuendo all’espansione siderurgica post-unitaria. Nel 1931, durante la Grande depressione, la ferriera fu assorbita dall’Ilva, una società anonima fondata a Genova nel 1905 dalla fusione di varie imprese siderurgiche, tra cui quelle legate alle miniere dell’isola d’Elba (“Ilva” è il nome latino dell’Elba). La nuova realtà, nata per sviluppare un polo nel quartiere napoletano di Bagnoli, si espanse incorporando asset chiave durante il fascismo.
Negli anni Sessanta, sotto l’Italsider (holding statale creata nel 1964), Novi conobbe una rinascita: un nuovo impianto fu inaugurato nel 1962 accanto alle aree originali, beneficiando del boom economico e fornendo acciaio per l’automotive. Privatizzato negli anni Novanta dal gruppo Riva, lo stabilimento piemontese divenne dipendente da Taranto per i semilavorati, una vulnerabilità che oggi amplifica la crisi.
La parabola discendente comincia negli anni Novanta, con le privatizzazioni e la liquidazione dell’Ilva statale. Nel 2015, ceduta ad ArcelorMittal, l’azienda ha vissuto un “lento rotolamento” di errori industriali, culminato nella fuga del colosso indiano nel 2019 e nella creazione di “Acciaierie d’Italia”, destinata da subito a una vita tormentata.
Le ipotesi per il futuro
Ora la palla è in mano al governo. Un protocollo d’intesa tra Federacciai e il Gestore dei servizi energetici (GSE) controllato dal Ministero dell’Economia mira alla decarbonizzazione della produzione dell’acciaio: un possibile punto di svolta anche per il futuro di Novi. «Se l’acciaio è un asset per il futuro del Paese, dobbiamo pensare a un gruppo forte. A Taranto va risolta la questione ambientale con riconversione energetica, ma la soluzione lì è decisiva per tutti. Spero che nel bando ministeriale per il cambio di proprietà dell’ex Ilva ci sia una clausola per mantenere unito il gruppo», aggiunge Muliere. «Ci hanno dato assicurazioni, spero mantengano la parola: bisogna dire con chiarezza che la scelta cadrà su chi vuole mantenere l’unità del gruppo. In questa fase lo Stato deve esserci, ma non all’interno del gruppo. Bisogna far partire gli investimenti, e accelerare perché tutte le filiere hanno bisogno di acciaio. I clienti storici di Novi – Mercedes e BMW – rischiano di voltarci le spalle, aggravando una situazione occupazionale delicata».
Muliere chiede la messa in sicurezza degli impianti e un piano di formazione professionale per i dipendenti. Istanze riprese dal Tavolo di lavoro che il 5 agosto ha riunito a Novi i vertici della Regione e il direttore generale dell’azienda Francesco Zambon. Dalla riunione è emerso un documento da inviare al governo basato su cinque punti fondamentali: «Strategicità dell’asset siderurgico, legato a doppio filo al futuro del sito di Taranto; unità d’intenti per un approccio complessivo e nazionale alla crisi; apertura a investimenti produttivi, purché finalizzati al rafforzamento e alla decarbonizzazione dell’intero gruppo; tutela dell’occupazione, che deve restare al centro di ogni proposta industriale e deve rispettare precise tempistiche; ruolo delle politiche attive del lavoro e della formazione come strumenti per accompagnare le trasformazioni tecnologiche del settore». Quelle trasformazioni che garantirebbero il proseguimento della produzione dell’acciaio in Italia, la sicurezza dei lavoratori, e soprattutto il loro futuro economico insieme a quello di un’intera città.
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