Sono scomparsi i maiali

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Sono scomparsi i maiali. Solo a novembre ne sono stati uccisi 2.435 in un allevamento di Frassineto Po, nel Basso Monferrato che sconfina nel Pavese. Alcuni di loro erano stati contagiati dalla PSA, la peste suina africana, la malattia che da tre anni ha messo in ginocchio gli allevamenti in tutto il Piemonte. Era solo la pagina finale di una storia lunga più di tre anni: molti allevatori, rimasti con le stalle vuote e alle prese con misure di prevenzione troppo onerose, non hanno più riaperto le attività. E di maiali, nell’Alessandrino se ne sono visti sempre meno.
Il “malato zero” si era rivelato il giorno dell’Epifania del 2022, quando a Ovada un cacciatore aveva trovato su un sentiero un cinghiale agonizzante. I cacciatori sanno come muoiono gli animali, e quello lì non sembrava proprio colpito da una scarica di pallettoni. C’era qualcosa di sospetto nel suo contorcersi a terra: la chiamata al servizio veterinario ha aperto un triennio fatto di allevamenti deserti per gli abbattimenti preventivi, sentieri bloccati per mesi, una rete stesa per 270 chilometri rivelatasi del tutto inutile per fermare le scorribande dei cinghiali infetti. Un’idea bislacca costata 10 milioni di euro, che da subito era parsa senza speranza: i cinghiali ci scavano sotto, la fanno cadere, si aprono dei varchi, o semplicemente passano dai cancelli dei campi coltivati lasciati aperti.
Il giallo del recinto di protezione
«La rete doveva essere interrata per funzionare», ammette a fine gennaio il governatore del Piemonte Alberto Cirio (Forza Italia). «Ma così non è stato: ora si può valutarne la rimozione». Un’opinione autorevole ma smentita dai fatti: la barriera, per decisione di Giovanni Filippini, commissario ministeriale per la peste suina, è rimasta dov’era. Non solo è importante «mantenere le recinzioni», ha detto il commissario poche settimane dopo l’uscita di Cirio, ma occorre anche «sfruttare e rinforzare le barriere autostradali esistenti».
Mentre le istituzioni litigano sul grande recinto (e i cinghiali continuano a passare come se niente fosse), i maiali muoiono.
«Solo nel primo anno, nella zona infetta sono stati uccisi ottomila esemplari sani, che vivevano negli allevamenti a conduzione familiare in stato semi-brado», dice Daniela Ferrando, presidente provinciale della CIA, la Confederazione Italiana Agricoltori. «La PSA ha praticamente azzerato l’attività di allevamento suinicolo, senza prospettive di ripresa all’orizzonte e ristori sempre minori per nulla garantiti in futuro», le fa eco in un report Paola Sacco, presidente provinciale di Confagricoltura.
Muoiono anche i cinghiali, a decine, nell’ambito del piano di abbattimento gestito dalla Regione Piemonte. In provincia di Alessandria, ha comunicato Paolo Bongioanni, l’assessore con le deleghe ad Agricoltura, Caccia e Pesca, nel 2024 sono stati abbattuti oltre 2.200 esemplari, altri mille sono stati uccisi nei primi mesi del 2025. «Il numero di cinghiali è diminuito», commenta con L’Unica Paolo Castellano, direttore provinciale di Confagricoltura. «In alcune zone, in luoghi precisi e delimitati, ma possiamo dire che gli abbattimenti hanno funzionato».
In realtà, la diffusione della PSA si deve non solo ai suini selvatici, principali vittime dell’epidemia, ma anche all’azione dell’uomo. Così sostengono animalisti e operatori del settore: una teoria interessante arriva da Novara, a firma di Alessandra Motta, responsabile del Rifugio Miletta, un centro per la fauna dove vengono ospitati animali in difficoltà, spesso salvati da morte certa. «Molti agricoltori e allevatori sono anche cacciatori, sono stati loro stessi a contagiare gli animali», spiega Motta. «Anche perché non vengono rispettate le misure di biosicurezza per il contenimento. Noi al rifugio abbiamo anche maiali e cinghiali e siamo corsi immediatamente ai ripari con doppie recinzioni e disinfettanti specifici. Non facciamo entrare camion e altre persone che potrebbero portare la malattia».
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I soldi mai arrivati
Precauzioni costose, che hanno costretto molti allevatori a gettare la spugna, andando a colpire un settore che prima dell’epidemia generava un giro d’affari in tutto il Piemonte di un miliardo di euro l’anno tra allevamento, produzione delle carni, trasporto ed esportazioni, queste ultime in netto calo dopo la diffusione del virus.
Le restrizioni nella provincia di Alessandria sono molto severe, nel tentativo di circoscrivere la zona di contagio, ma il virus non conosce confini. L’esperienza del Covid-19 dovrebbe averci insegnato qualcosa: l’epidemia è già arrivata in Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna. Ma lì, non sempre sono stati abbattuti tutti i capi a scopo precauzionale, come invece succede da tre anni in Piemonte.
Ma gli allevatori alessandrini hanno avuto compensazioni economiche per le perdite legare all’abbattimento degli animali? «Attendono contributi promessi mai arrivati», dice Castellano. «Le stalle non sono state ripopolate, proprio per la presenza del virus. Mancando questo reddito viene a mancare tutta una serie di economie. Gli allevatori avevano fatto investimenti e chiesto finanziamenti, si sono indebitati, e non c’è stata nessuna moratoria sui prestiti. Una cosa è certa: quei soldi devono arrivare, e devono arrivare presto».
Nell’ultimo incontro tra le associazioni di agricoltori e allevatori e l’assessore regionale Bongioanni le cifre sono uscite con chiarezza: dei 6,5 milioni di euro di indennizzi previsti dalla regione Piemonte ne sono stati pagati soltanto 3 e mezzo (e 2 milioni e 780 mila euro sono arrivati dallo Stato per il deprezzamento delle aziende). «Noi siamo sempre presenti ai tavoli in cui si parla di PSA, non dimentichiamo mai di chiedere i ristori», ricorda Castellano. «Facendo presente che le stalle sono vuote e se rimangono così perdono valore, proprio come succede con le case. Senza dimenticare che, anche senza animali e di conseguenza senza incassi, gli allevatori devono far fronte alle spese fisse».
Una soluzione, ristori a parte? «Lo diciamo da decenni: bisogna eradicare i cinghiali. Questa non è una specie autoctona, sono molto più grandi di quelli nostrani, e hanno un colore diverso. Il loro numero incontrollato è causa del virus».
Il dibattito sulla caccia ai cinghiali
Come spesso accade in Italia, a problema straordinario si applica commissario straordinario. Per la PSA ce ne sono stati tre, l’ultimo dei quali è il già citato Giovanni Filippini, direttore dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sardegna. Le loro delibere sono sempre state “di contenimento”: caccia al cinghiale senza vincoli, aree chiuse (la zona rossa del primo contagio vietava anche trekking ed escursioni), allevamenti resi deserti dagli abbattimenti preventivi. Provvedimenti che alle associazioni di categoria piacevano solo sul capitolo abbattimenti: si stima che nel 2024 in tutta Italia siano stati uccisi 31 mila cinghiali, ma i focolai di peste suina rimangono 32 fra i suini e 1.205 tra i cinghiali. In tutta Europa, secondo il rapporto EFSA (l’autorità europea per la sicurezza alimentare), il numero di focolai nei selvatici è rimasto stabile dal 2022.
Non tutti sono d’accordo sulla soluzione finale sostenuta dai cacciatori. Non solo gli ambientalisti, ma anche alcuni etologi, sostengono che l’eradicazione prima dei cinghiali e poi del virus non passa attraverso la scomparsa dei selvatici: il contagio, come è ovvio, ha comunque varcato i confini della provincia e della regione. Francesco De Giorgio, etologo ligure sempre originale nelle sue dichiarazioni ma mai smentito dalla comunità scientifica, chiamato a spiegare la discesa dei cinghiali nelle città, ha detto che quando viene abbattuto «un certo numero di cinghiali si fa spazio ad altri, generando tra l’altro i presupposti per un aumento considerevole della prolificità. Quando, per fare un esempio, ne viene abbattuto uno nel Bisagno, si viene a creare lo spazio per l’immissione di altri, definiamoli “occasionali”. Quello che viveva nel greto del torrente era stanziale: presidiava il territorio impedendo l’invasione di suoi simili dalle vallate. Ecco, bisogna fare una distinzione fra stanziali e occasionali: i primi sono quelli che meglio evitano l’incremento e la proliferazione della specie».
Mentre il resto del mondo dibatte, in Italia le cose si ripetono sempre uguali. A luglio 2024 una delegazione di veterinari inviata dalla Commissione europea nelle zone infette, ha espresso i suoi dubbi sull’utilità di caccia e recinzioni. Suggerimento che il Ministero della Salute non ha accettato. Nel nuovo piano di contenimento si torna a parlare di barriere protettive. Peccato che nessuno abbia pensato di avvertire i cinghiali che, quando vedono recinti e cancelli chiusi, devono fermarsi invece di cominciare a scavare.
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