Fronte del porto contro la guerra: cinque anni di blocchi ai carichi di armi

Fronte del porto contro la guerra: cinque anni di blocchi ai carichi di armi
Foto: Simona Tarzia

L’Unica è una newsletter gratuita che ogni settimana ti manda via mail una storia dal tuo territorio.

Abbiamo altre quattro edizioni: Alessandria, Asti, Cuneo e Torino.

Per riceverla, clicca qui

A Genova, il porto non è mai stato solo un porto. È stato fabbrica, frontiera, piazza politica. Negli anni Settanta la lotta dei camalli già segnava i ritmi della città. Oggi, un gruppo di lavoratori porta avanti la tradizione con un gesto antico e radicale: bloccare le merci. Merci che si chiamano bombe e blindati.

Sono quelli del CALP, il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali. Indossano giubbotti catarifrangenti e una certezza: il lavoro non può essere complice della guerra. Lo ripeteranno oggi, venerdì 28 novembre, in piazza con la città per dire un no chiaro ai soldi pubblici sprecati in armi invece di ospedali, scuole e salari. Due di loro, Riccardo Rudino e José Nivoi, hanno raccontato a L’Unica queste battaglie.

Tutto comincia nell’inverno del 2018. Due portuali guardavano il telegiornale, ricorda Rudino. Nel servizio si vedevano «strade sabbiose di una città libica, pick-up con uomini armati sui cassoni». I due, su un parabrezza, notano un adesivo: “Porto di Genova-Tripoli”, strappato a metà ma inconfondibile. «È il marchio che i piazzalisti [gli operatori che gestiscono i movimenti sui piazzali del porto, ndr] mettono sulle fiancate dei mezzi da imbarcare». In quel momento, la linea invisibile tra le banchine e la guerra si accorcia e sparisce. Da allora, il lavoro non è più stato lo stesso.

L’occasione per agire arriva nella primavera del 2019, quando la Bahri Yanbu – un cargo della compagnia statale di trasporti saudita – attracca al GMT, il Genoa metal terminal. «La Yanbu è una delle sei cargo gemelle della flotta saudita». Lo spiega Nivoi, volto noto del CALP e referente del sindacato USB per il porto di Genova, che aggiunge: «Seguono rotte dal Nord America al Medio Oriente via Mediterraneo. Ognuna ha il nome di una città, come una targa: si chiamano Abha, Jazan, Jeddah, Hofuf, Tabuk, Yanbu».

Al GMT il carico aspetta. Gruppi elettrogeni Teknel, azienda specializzata in sistemi di difesa logistica militare. Stanno lì. Color sabbia del deserto. Ufficialmente, sui moduli, è materiale civile. Pochi giorni prima, a le Havre i portuali francesi avevano impedito l’imbarco sulla Yanbu di otto cannoni semoventi Caesar da 155 mm.

Un adesivo smaschera il materiale militare

A rendere ambigua l’aria genovese c’è un dettaglio che non torna: allegata al carico “civile” di generatori diretti a Jeddah c’è un’autorizzazione dell’UAMA, l’Unità per l’autorizzazione dei materiali di armamento, l’ente che regola l’export di armi. A fare la spia è ancora un adesivo dell’UAMA, incollato alle casse. Il sospetto di Nivoi: potrebbero alimentare i droni che uccidono nello Yemen. Un carico sospeso in una zona d’ombra. Civile o militare? «È il contesto a decidere quanto spostare il confine – chiarisce Rudino –, come per i pick-up». Dipende tutto da cosa trasportano, e da chi li guida.

Stanchi di movimentare materiali borderline, il 20 maggio 2019 scioperano. Aggirano il blocco della polizia ed entrano in banchina dove è attesa la Bahri. Cambiano il ritmo del porto. Si piantano lì e dicono basta. Bloccano gli ormeggiatori. La capitaneria ne porta altri via mare. Alla fine, la nave attracca. Il portellone della Yanbu si apre in tarda mattinata ma niente sale a bordo. I generatori finiscono in un’area protetta del porto e a fine giornata la nave riparte senza il suo carico.

Il blocco di maggio non si esaurisce lì. Rimbalza su altre banchine e altre navi. A fine mese Genova aspetta un nuovo cargo Bahri, la Tabuk, ma la compagnia, scottata dal precedente blocco e dalle proteste al porto di Marsiglia, cambia rotta all’ultimo. Genova sparisce dal piano. Spunta una tappa inattesa: Cagliari. Lì quattro container da 30 tonnellate vengono caricati in autoproduzione, senza portuali, usando l’equipaggio.

Cosa c’era dentro? Nessun simbolo di esplosivi, solo la fretta e un cordone di sicurezza privata che parlano da soli. Secondo la Rete pace e disarmo, che ha documentato l’operazione, quei container arrivano dagli stabilimenti sardi della RWM, la filiale della Rheinmetall, l’industria tedesca che produce munizioni e sistemi d’arma.

A Genova, intanto, i generatori Teknel sono ancora in banchina quando, il 17 giugno 2019, gira voce tra i moli che sta arrivando un’altra Bahri, la Jazan. Il porto si rimette in movimento. Si prepara un presidio al varco Etiopia e un altro sotto l’autorità portuale, a Palazzo San Giorgio. L’idea del CALP è chiara: coinvolgere la città. Poi, a poche ore dall’ormeggio la notizia: la Teknel rinuncia all’imbarco perché le proteste rendono impossibile operare in sicurezza.

Il CALP ha vinto. La guerra non può più attraversare le banchine senza essere vista e messa in discussione. La Bahri tornerà a Genova ma non caricherà più materiale d’armamento nel porto ligure. Le navi arriveranno con le armi già bordo. Ma questa è un’altra parte della storia.

Cara lettrice, caro lettore,

dopo Alessandria, mercoledì 10 dicembre L’Unica ha organizzato il suo secondo evento dal vivo ad Asti. Sarà una serata speciale per conoscerci di persona e parlare insieme della città che raccontiamo ogni settimana.

Se ti interessa avere più informazioni sull’evento di Asti clicca qui .

Il confine tra affari e diritti umani

La voce del CALP è chiara: «A Genova troveranno sempre la nostra opposizione». L’attenzione deve rimanere alta. Le navi saudite «sono navi giramondo che cambiano rotte e porti a seconda dei conflitti e delle richieste», ha detto Rudino in un’intervista del 2020. E infatti, controllando le tratte, i portuali scoprono un nuovo scalo: Iskenderun, Turchia. Vicinissimo a una base militare e al confine siriano.

Il calendario segna 17 febbraio 2020. La Yanbu arriva al terminal GMT da Bilbao. I portuali sospettano «un carico di munizioni e bombe perché la Spagna è specializzata in quello». Rudino ormai lo sa a memoria. A Genova la nave imbarca solo materiale civile ma il problema resta: le armi transitano comunque, caricate altrove. La legge italiana potrebbe fermarle, ma invece non incontrano ostacoli.

C’è di più. Da marzo 2020, le navi Bahri e i loro carichi di armamenti faranno la spola tra Genova e Iskenderun. Il CALP presidia, prima con la CGIL fino alla fine del 2020, poi con USB. Non ci stanno. Per un anno e mezzo Iskenderun scompare dalle schede di transito. Riapparirà nel 2022, quando la mobilitazione del presidente della Turchia Erdoğan contro il Kurdistan siriano le rimette sulla rotta.

In porto se ne accorgono il 4 agosto. «I colleghi spagnoli lanciano l’allarme: la Tabuk è a Sagunto», racconta Rudino. Poi Genova. Poi Iskenderun. In realtà, a Genova ci arriverà il 17 agosto. Dopo aver scaricato a Iskenderun. La Tabuk ha viaggiato con i radar spenti ogni volta che si è avvicinata a un porto, «lo vediamo sui siti che tracciano le navi: spenti i transponder spariscono dai radar», avverte Rudino.

Non voleva essere vista. Non voleva problemi. Perché? Perché è in agguato un nodo legale. La vocazione di questi cargo è palesemente militare ed è in contrasto con la legge 185/1990 che vieta il transito di armi verso Paesi in conflitto o che calpestano sistematicamente i diritti umani. In sostanza: non è lecito diventare un hub logistico per guerre lontane. Sulla carta, la legge dovrebbe essere uno scudo. Sorvegliare i porti, controllare le esportazioni. E invece no. La sua applicazione è incerta, dibattuta, fragile.

Foto: Simona Tarzia

Il CALP sotto accusa

Sapere che una legge c’è li spinge a parlare. Vedere che non si rispetta li spinge ad agire. Ogni volta che una Bahri approda, la scena si ripete. La polizia presidia il terminal. Il nastro adesivo – novità – sigilla le fessure dei portelloni: nessuno deve fotografare, nessuno deve testimoniare. E loro rispondono a modo loro. Accolgono i carichi militari con i fumogeni. Insieme ai copertoni in fiamme diventano la firma del CALP. Qualcuno di quei fumogeni colpisce lo scafo di una Bahri, di striscio, ma basta a far scattare le denunce. Ormai lo hanno messo in conto.

Quello che non hanno messo in conto, invece, succede il 24 febbraio 2021, quando la Digos suona i campanelli, e le porte di casa si spalancano a un’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla resistenza a pubblico ufficiale e all’attentato alla sicurezza dei trasporti.

Secondo la Procura di Genova, quei portuali non sono più attivisti sindacali. Sono membri di un gruppo criminale. Scioperi, blocchi pacifisti, fumogeni: tutto rientra in un disegno criminoso. Ma tra le carte protocollate si legge la vera ragione dell’indagine: la lotta al traffico di armi. Le denunce non arrivano da cittadini qualunque ma da chi ha interessi diretti. Lo confermano i virgolettati, stralci degli atti resi pubblici dal CALP nel libro “Fino all’ultimo di noi” (Red star press, 2024).

Negli esposti alla Procura presentati nei mesi precedenti alle perquisizioni, il Collettivo diventa una minaccia per «la sicurezza e l’ordine pubblico». Si sostiene che i portuali siano «portatori di occulti altrui interessi contrari a Bahri per ragioni che nulla hanno a che vedere con le legittime istanze pacifiste». Si chiede di «avviare procedimenti penali», di «verificare i turni di lavoro nei giorni in cui sono stati effettuati gli attacchi alla Bahri» e infine di prevedere «misure cautelari personali e divieti di avvicinamento alle aree terminalistiche delle navi Bahri». Il messaggio è chiaro: chi tocca il business delle armi va fermato.

Il pubblico ministero incaricato archivia la prima serie di denunce il 12 marzo 2020. Non basta. Gli esposti continuano: atti vandalici contro aziende del porto, facciate imbrattate, messaggi offensivi, vengono tutti ricondotti al CALP. La richiesta è chiara: punire chi danneggia economicamente i diretti interessati. «Con il blocco di maggio 2019 ci hanno perso soldi – denuncia il collettivo –. Trentamila euro per il trasporto via terra dei generatori, più cinquemila di penale».

Segue un’altra archiviazione. Poi la pressione diventa più sporca. Si chiede l’apertura di un’indagine per attentato alla sicurezza dei trasporti, tentativo di lesioni personali aggravate, fabbricazione, detenzione e porto abusivo di materiale esplodente. Come “prova”, una busta con una cartuccia di fucile e una minaccia scritta, lasciata da un anonimo sul bancone degli uffici di un’agenzia marittima legata alla Bahri. Per due anni, i telefoni dei portuali vengono spiati. Uno smartphone hackerato con un trojan – una sorta di virus informatico – permette agli inquirenti di ascoltare ogni parola, anche privata. «Una sorveglianza totale, giustificata solo dal peso dell’accusa associativa», ha detto a L’Unica Laura Tartarini, avvocata del collettivo, spiegando che «in un altro contesto, nessun giudice avrebbe mai autorizzato una simile intrusione per dei reati minori da manifestazione».

Nessuno controlla i video della telecamera che veglia sull’agenzia per identificare l’ignoto portalettere. Occhio di vetro che vede tutto, ma nessuno interpella.
«Crediamo che questa indagine nasca in alto», scriverà il CALP su Facebook il 6 aprile 2023, dopo l’ultima archiviazione. «E che abbia mandanti precisi».

Il diavolo e l’acqua santa

La realtà fuori dai fascicoli è un’altra. Il CALP continua la sua battaglia. Quelli che nel decreto di perquisizione avevano definito “dispositivi micidiali” per i portuali sono bengala di segnalazione, accesi per mostrare il vero crimine: le stive piene di armi in partenza da Genova. «L’unica arma micidiale che abbiamo usato è stato lo sciopero», avevano detto durante l’assemblea pubblica organizzata al Circolo CAP di via Albertazzi dopo le perquisizioni del 2019.

In mezzo a questa tempesta giudiziaria, accade l’imprevisto. Papa Francesco parla di loro in un’intervista: «Bravi – dice – basta con questa ipocrisia armamentista». I portuali si sentono colpiti, orgogliosi. La loro lotta ha raggiunto il Vaticano. Scrivono. La risposta arriva. Ma prima ancora di partire, quasi scoppia un incidente diplomatico: la Digos romana – ricordate il trojan? – prova a bloccare l’incontro. Li considera un’associazione sovversiva. I servizi di sicurezza del Vaticano rispondono picche, l’udienza si farà. Avvertono i portuali di prendere precauzioni: viaggiare di giorno, usare i mezzi pubblici. Lo Stato italiano potrebbe fermarli.

Non accade nulla. Dal Papa ci arrivano e gli regalano pure una maglietta del CALP, come quelle dei cortei, con l’ancora e il martello. A consegnarla è Nivoi. Sono passati quattro mesi dalle perquisizioni.

Il teorema salta

Dopo due anni di intercettazioni l’accusa cade: non c’è un’associazione criminale. Il CALP fa politica e sindacato. Aspra, rumorosa, legittima. A aprile 2023 l’inchiesta è archiviata. La loro colpa? Applicare in banchina ciò che lo Stato ha scritto sulla carta: la legge 185/1990. Farla rispettare davvero. La mobilitazione contro le navi delle armi dimostra che contro la guerra si può agire. E la gente lo capisce.

A febbraio dello stesso anno, diecimila persone erano entrate dal varco Etiopia e per la prima volta nella storia avevano attraversato il porto di Genova gridando il loro “no” alla guerra accanto ai portuali. Non erano i soli. Il CALP ormai aveva rotto i confini della Liguria, attraversato banchine straniere. Dal Pireo a Bilbao, da Marsiglia a Barcellona, da Tangeri a San Francisco.

Ora tocca alla Bahri

La scena si capovolge. A finire sotto indagine è la Bahri. “Atti relativi”, li chiamano: servono a Digos e capitaneria per accertamenti, per la raccolta delle prove. Cosa è successo? L’8 agosto 2025 la Yambu attracca al GMT. Carica. Attivisti locali raccontano al CALP di munizioni caricate ad Anversa, container imbarcati a Santander. I portuali salgono a bordo. La stiva è piena: sistemi d’arma, munizioni, cingolati. Un cannone Oto Melara pronto per l’imbarco che resterà a terra. Prendono i telefoni e filmano e fotografano, ma la vigilanza privata di un’agenzia marittima legata alla compagnia saudita li obbliga a cancellare tutto. Qualcosa resta. Da qui parte un esposto, da qui l’indagine della Procura. L’ipotesi è la violazione della legge 185/1990.

Ma la storia non si ferma. C’è un altro fronte, un’altra guerra anche in porto: la compagnia israeliana Zim. I portuali presidiano i varchi, bloccano le banchine, controllano ogni movimento. La Zim New Zealand staziona al Terminal Spinelli. È la sera di sabato 27 settembre 2025. I portuali del CALP, avvisati dai colleghi in turno, sanno che a bordo ci sono dieci container sospetti. È sciopero. Nessuno carica, nessuno scarica. Tutto ciò che potrebbe alimentare guerre lontane sta fermo. La portacontainer se ne va. E poi ritorna il giorno seguente ma solo per scaricare: nessun container destinato a Israele salirà a bordo.

Fumogeni, bandiere, occhi attenti su ogni cassone. La città partecipa. Come il 30 agosto quando una marea umana aveva invaso la sopraelevata: 40 mila persone in corteo a sostenere la partenza della Global Sumud Flotilla. Su una barca a vela c’era anche Nivoi, un pezzo del CALP diretto verso la Striscia di Gaza.

Il porto resta in guardia. Ricompare la New Zealand. Attracca dalla città spagnola di Foz il 10 ottobre. I portuali non arretrano. Ancora un presidio. Ancora copertoni e fumogeni. Ma il CALP non è solo protesta. Vuole costruire. Vuole sapere. Chiede un osservatorio permanente non solo per i porti, ma anche per scuole e università, dove la guerra entra in silenzio travestita da futuro. Un osservatorio che tenga gli occhi aperti sulle armi. Il CALP vuole che «ciò che attraversa il porto, la città, le scuole, le università, i luoghi di lavoro sia trasparente, visibile. Vogliamo che la guerra non passi inosservata e che le mani di chi lavora restino pulite». 

Questa puntata di L’Unica Genova termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.

Ti consigliamo anche:

🚨 Il carcere di Alessandria potrebbe diventare di massima sicurezza (da L’Unica Alessandria)

👨‍👧‍👦 Anche i bambini rom sono allontanati dai loro genitori (da Pagella Politica)

💔 Le truffe sentimentali sono un problema sempre più diffuso (da Facta)