Il teatro che aiuta le donne a costruirsi una nuova vita

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Foto: Pexels

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Quando le hanno proposto per la prima volta di partecipare al laboratorio teatrale, V. è scoppiata a piangere. «Non te la senti?», le ha chiesto Romina, operatrice del centro “Per non subire violenza” e teatro-terapeuta. «E io: no, no, piango perché lo voglio fare. Per me è stato riscoprire che valgo qualcosa», ha raccontato a L’Unica. «Dopo quello che avevo passato non conoscevo nemmeno più il mio corpo, chi ero. Che ne ero uscita l’ho capito andando in scena con il primo spettacolo, che si intitolava “Double face. Donne adatte ad ogni stagione”. Lì ho pensato: «Ce la faccio. Ho imparato a leggermi dentro. È stato come lavare tutto il mio dentro e tornare pulita. Non che prima fossi sporca: ma ero tutta stropicciata».

La “cassetta degli attrezzi”

Tutti i martedì, al TiQu, teatro di quartiere nel centro storico di Genova, un gruppo di donne prova a ritrovarsi. A rimettere in ordine la propria “cassetta degli attrezzi”, come la chiamano qui. «Perché gli strumenti ce li abbiamo tutti – ha spiegato a L’Unica Romina Soldati, che lavora insieme a Ilaria Piaggesi del Teatro dell’Ortica – solo che sono nascosti, sopiti. Bisogna reimparare a usarli». Il progetto si chiama “Il rumore del silenzio” e coinvolge un gruppo di una trentina di donne: alcune di loro hanno subìto forme di maltrattamento, e in questo spazio provano a rielaborare i propri vissuti attraverso la riscoperta corporea e la narrazione del sé. Ma attenzione a non ragionare per etichette. «Lo ripetiamo a lettere cubitali: questo non è un laboratorio per vittime. È fondamentale infatti lottare contro lo stigma, il giudizio. La violenza subìta non è quello che sei», ha detto ancora Soldati. «Questo è piuttosto un laboratorio integrato: lavoriamo con le persone. E alcune si trovano in un momento di temporaneo disagio. Perché la violenza è un problema sociale che tocca tutti, anche chi pensa di no. Invece dilaga, e spesso non lo vediamo».

A lavorare su di sé, a imparare a costruire e ad arredare il proprio spazio interiore, a capire cosa significhi distanza, equilibrio, dove iniziano e finiscono i confini tra sé e l’altro, ci sono donne di ogni età e provenienza. Chiunque può partecipare. «Ci sono anche tante giovani, si va dai venti ai sessantacinque anni, persone seguite dai centri, ma anche attiviste, o semplici cittadine. Che poi qui si accorgono di aver subìto forme di violenza che non vedevano», ha aggiunto Soldati.

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Ritrovare i pezzi

Il percorso teatrale procede di pari passo con quello all’interno del centro. Lo spettacolo a cui stanno lavorando ora si intitola “Madre nostra”, ed è il risultato di un lavoro autobiografico, di un percorso che si costruisce insieme durante i laboratori. «In “Madre nostra” viene fuori la relazione conflittuale, l’essere figlia, l’essere madre – ha detto ancora Soldati –. Tutto questo fa saltare tanti tasselli, che sono le nostre certezze. E crea un fermento che poi va elaborato durante le sedute, messo a sistema».

La prima cosa che ci ha detto D. per raccontare il suo percorso è che qui si è «ricomposta, pezzo per pezzo». A sentirla parlare con entusiasmo dell’amore per i musei, per i libri, per un viaggio in Egitto che sognava da tanto, è difficile immaginare la persona «annientata, dimagrita fino a 42 chili» che racconta. «Mio marito aveva una relazione con una mia amica – ha ricordato confidandosi con L’Unica –. Lui mi umiliava, mi stava annientando poco per volta, facendo sentire che non ero niente. Ero inerte, piangevo, lui mi filmava e mi prendeva in giro, diceva che ero pazza».

Una tortura quotidiana, durata due anni. «Mi uccideva piano piano, volevo morire. Quando ho visto mio figlio adolescente reagire, i suoi occhi pieni di odio mi hanno convinta a chiedere a mio marito di andarsene». A salvarla è stata anche una vicina.«È lei che ha chiamato il centro e mi ha passato un’operatrice per prendere appuntamento. Io non ne avrei avuto la forza. Durante le prime sedute non riuscivo nemmeno a parlare, piangevo solo, raccontavo la storia a pezzi. Ho capito con il tempo che lui mi annientava da anni: facevo due lavori, assistevo un’anziana e pulivo le case, e lui diceva che lo trascuravo. Era manipolativo, non mi lasciava leggere, diceva: “Cosa prendi i libri invece di stare con tuo marito”. Mi sminuiva, quando leggevo le favole a mio figlio mi prendeva in giro: “Ma se non parli neanche bene italiano”».

D. è di origine ucraina. «Non avere qui una rete famigliare ha reso più facile per lui isolarmi. Con il tempo e con il lavoro su me stessa ho capito che è un narcisista che ama solo sé stesso». Per lei il teatro è stato un cammino di guarigione: «Ho capito che nessuno può invadere i miei spazi. Facciamo esercizi con l’equilibrio. Usiamo una palla di bambù, cammini e non deve cadere. O un filo, che se tiri troppo si spezza, e devi decidere fino a quando tirarlo o fino a quando seguire un altro. Tutti i giorni scopri una nuova te».

L’eredità di Anna Solaro

Il primo progetto pilota di questo tipo di laboratori fu un’idea di Anna Solaro. Attrice, formatrice, regista, anima del Teatro dell’Ortica e del laboratorio “Stranità”, morta prematuramente tre anni fa. “Il rumore del silenzio” porta la sua impronta. «Quello che mi ha dato Anna non lo dimenticherò mai – ha raccontato V. –. Mi ha insegnato a guardarmi dentro. Con il silenzio, con la musica, con i racconti che ci leggeva».

V. ha ripercorso la sua storia dolorosa: le violenze dell’ex cognato, che abusava di lei mentre era ospite a casa sua. La paura che immobilizzava, le minacce di fare del male ai suoi figli se V. avesse parlato. Poi la fuga, mentre lui la inseguiva per strada: «Ho bussato alla caserma dei Carabinieri. Che mi hanno trattata malissimo».

V. oggi ha 56 anni. La prima volta che è arrivata qui, al centro “Per non subire violenza” di via Cairoli, è stato dieci anni fa. «Mi hanno indirizzata dalla Salute mentale: mi ero rivolta a loro perché pensavo di essere io, la pazza. Invece, quando ho raccontato la mia storia, mi hanno detto: sono suo marito e suo cognato che dovrebbero essere qui».

La storia di V. è una storia di sopraffazione. «Mi sono sposata a vent’anni: sono passata da essere figlia a essere moglie, convinta di non essere capace a far niente. Mio marito me lo ripeteva. Ed era molto geloso: quando eravamo fidanzati alzava anche le mani. Poi è passato alla violenza economica e psicologica: gestiva tutto. Ma per me era un eroe, perché io ho perso una sorella molto giovane, e ho preso i suoi bambini con me, li ho adottati».

Trovare la forza, ha spiegato V., non è mai facile. Il percorso è lungo. Lei ha sporto sei denunce. «Ma capisco anche le donne che non vogliono denunciare: per paura che ti porti via i figli, che diventi più violento. Dico però che lo devono fare: e che il centro ti aiuta a proteggerti. Non ce la fai da sola. Ma qui capisci una cosa che sembra ovvia ma non lo è: non è colpa tua».

Questa puntata di L’Unica Genova termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.

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