Torino vuole essere una città turistica, ma ha bisogno di una strategia

Torino vuole essere una città turistica, ma ha bisogno di una strategia
Uno scorcio di Torino – Foto: Pexels

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Nell’ultima uscita di L’Unica Torino abbiamo scritto che il Parco del Valentino è grande 421 metri quadri, al posto di 421 mila metri quadri. Ci scusiamo per l’errore.

Torino è da tempo al centro di un dibattito che riguarda la sua identità economica. A essere discusso, in particolare, è il ruolo del turismo come nuova realtà di riferimento: se da un lato sembra essersi spenta la storica vocazione industriale dell’ex capitale dell’auto – la recente cessione dell’Iveco al gruppo indiano Tata è l’ultima tappa di un fenomeno che pare irreversibile – dall’altro in città si notano sempre più visitatori e gli stranieri non mancano.

La tentazione di considerare Torino attrattiva tanto quanto altri luoghi che da decenni sono meta dei percorsi turistici più popolari è evidente. E non mancano le conferme a livello mediatico: sul finire dello scorso anno la città si è aggiudicata il titolo di European capital of smart tourism per il 2025, un’iniziativa della Commissione europea che, per usare le parole del sindaco Stefano Lo Russo, ha premiato «gli sforzi messi in campo per potenziare l’attrattività turistica della città e la sua notorietà a livello internazionale».

Tuttavia, fermandosi all’apparenza, si rischierebbe di sbagliare valutazione. È vero che la Giunta di centrosinistra guidata da Lo Russo, puntando sui grandi eventi come le Atp Finals di tennis, ha favorito l’afflusso di un gran numero di visitatori. Ed è vero che anche le politiche regionali, guidate dal presidente di centrodestra Alberto Cirio, sono andate nella stessa direzione, come dimostra tra gli altri eventi l’imminente passaggio della Vuelta (la grande corsa ciclistica spagnola), che sabato 23 agosto vivrà un’inedita e scenografica partenza dalla Reggia di Venaria. Ma se si vanno a leggere con attenzione le statistiche – tutte le statistiche – i contorni della realtà si definiscono meglio e illustrano una situazione molto meno ottimistica.

Quanto spendono i turisti a Torino

Circa un mese fa, ad esempio, sono passati in secondo piano i risultati della ricerca Tourism and incoming watch, realizzata da Nexi con la direzione scientifica dell’Osservatorio nazionale del Ministero del Turismo. Il report ha reso noti i nuovi dati sulla spesa con carta di credito dei visitatori stranieri nel 2024: il totale per l’Italia è stato di oltre 20,9 miliardi di euro, pari a un aumento del 37,9 per cento rispetto al 2022. Cifre importanti sul piano nazionale, ma che per quanto riguarda Torino offrono uno specchio perlomeno ambiguo.

Il rapporto Nexi ha preso in esame non solo le principali città ma anche alcune microaree di riferimento, come ad esempio Milano e la zona dei laghi, Firenze e le colline di Siena, Napoli e la costiera amalfitana. A conti fatti, nelle prime posizioni delle graduatorie di spesa non c’è traccia di Torino, che a livello di province (quindi comprendendo nel calcolo Sestriere, Bardonecchia e gli altri comuni delle cosiddette Montagne olimpiche) è soltanto quindicesima con 281 milioni di euro incassati nel 2024 dai principali circuiti internazionali di carte di credito: una cifra inferiore a quella ottenuta, ad esempio, dalle province di Brescia, Sassari e Messina. Ancor peggio la classifica per microaree turistiche, dove Torino scende al ventesimo posto, superata anche da Bologna e Verona.

Una delle più significative rivelazioni di Nexi riguarda l’analisi dell’incidenza che la spesa dei turisti provenienti dall’estero ha sul giro d’affari complessivo della provincia. In questa graduatoria Torino scivola in coda alla lista con il 2,1 per cento, un valore nettamente inferiore rispetto al 5,8 della media nazionale. L’impressione che si ricava da questo dato racconta di turisti che aumentano come numero, ma che in media rispetto al passato sono meno disposti a spendere.

Secondo una recente ricerca basata su un’elaborazione di dati provenienti da Ente nazionale del turismo e Unioncamere, ogni turista – italiano o straniero – che arriva in città spende mediamente 140 euro al giorno, suddivisi tra pernottamento (45 euro), ristorazione (35), attività culturali (25), shopping, trasporti e altro (35).

Molti? Pochi? Anche qui, per avere una risposta, occorre guardare tutte le statistiche. Si parla di una cifra in calo del 10,4 per cento rispetto al recente passato, pur di fronte a una crescita di turisti in arrivo (quasi 3 milioni nel 2024), ma il passo indietro diventa più evidente andando in cerca di analisi più “stagionate”.

Secondo uno studio della Camera di Commercio risalente al 2003, in cui i ricercatori avevano esaminato oltre 1.600 visitatori arrivati a Torino dall’Italia e dall’estero, «i turisti intervistati spendono in media 155,01 euro escluse le spese alberghiere. […] Spendono di più gli stranieri: in media 216,89 euro contro i 120,14 degli italiani». In confronto alle cifre di oggi siamo a più del doppio, al lordo dell’inflazione e della perdita del potere d’acquisto.

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Il turismo a Torino come «illusione ottica»

In questo contesto, il Politecnico di Torino ha contributo ad alimentare qualche dubbio sul tema, evidenziando il rischio di favorire l’ipotetica trasformazione di Torino in meta turistica, senza però un piano di sviluppo industriale alle spalle.

Luca Davico, docente di Sociologia urbana presso il dipartimento interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio, ha dato della Torino turistica una definizione originale e a suo modo spietata: «Illusione ottica collettiva». La sua analisi, evidenziata nel Rapporto Rota del Centro Einaudi – la ricerca che dal 2000 analizza la progressiva trasformazione della città, e di cui Davico è coordinatore – si fonda su numeri e dinamiche che mostrano come la città fatichi ad attrarre visitatori ad alto potere d’acquisto, e come il settore turistico generi occupazione instabile, stagionale e spesso mal retribuita.

La percentuale di persone occupate che lavorano nel turismo a Torino è bassa rispetto alle altre città metropolitane. «L’illusione ottica [si deve al fatto, ndr] che abbiamo un turismo iper-centralizzato: ci sono code davanti ai musei e in piazza Castello nei ponti, o nelle stagioni di mezzo, o nei grandi eventi come le Atp Finals», spiega Davico. Al contrario, nel resto «dell’anno e nelle altre zone, esclusa forse la Reggia di Venaria, di turisti ce ne sono pochissimi. Vedendo le code al Museo Egizio in occasione del ponte sembra si sia fatto il boom. Ovviamente il turismo è cresciuto molto rispetto a vent’anni fa, ma questo è un fenomeno mondiale».

Reggia di Venaria – Foto: Pexels

La città che cambia e le strutture che mancano

Lo studio della Camera di Commercio del 2003, quello che raccontava di visitatori stranieri con le tasche piene di euro da riversare nei ristoranti e nei negozi del centro, presentava un ulteriore dato utile per fotografare un cambiamento che, nell’ultimo ventennio, ci ha consegnato una città profondamente diversa.

«Il 41,2 per cento degli intervistati si trova a Torino per lavoro e il 36,4 per cento per vacanza: gli italiani soggiornano a Torino soprattutto per motivi di lavoro (+2,2 per cento rispetto alla media generale), mentre gli stranieri per vacanza (+8 per cento rispetto alla media generale)», dicevano gli analisti di ventidue anni fa. Esistono poi delle differenziazioni in base al sesso: la motivazione del soggiorno più ricorrente fra i maschi è quella del lavoro (il 51,8 per cento del totale delle presenze), mentre quella per le femmine è la vacanza (il 48,1 per cento). Fra gli stranieri, il 58,9 per cento dei francesi soggiorna a Torino per vacanza; il 53,3 dei tedeschi per lavoro e si verifica per gli statunitensi una situazione di quasi parità fra lavoro e vacanza.

Nel 2025, fanno notare gli albergatori, la situazione è radicalmente diversa. «A Torino viviamo due picchi di presenze durante l’anno: a maggio e a novembre», ha detto al Corriere Torino il presidente di Federalberghi Fabio Borio, citando i sold out legati al Salone del Libro e alle Finals del tennis. «Ma il resto dell’anno si fa fatica, soprattutto oggi con la crisi dell’industria e l’assenza di grandi flussi di viaggiatori d’affari». Secondo Borio, «dobbiamo migliorare due cose: imparare a spalmare meglio gli eventi e tornare a puntare sul turismo congressuale e fieristico. Per farlo servono infrastrutture». In particolare, manca un centro congressi all’altezza delle esigenze di una metropoli dalle ambizioni turistiche: un’assenza, spiega ancora il presidente, che «priva la città di un asset strategico importantissimo».

Discorso analogo per la ristorazione, identificata dal Rapporto Nexi come primo canale di spesa per i turisti stranieri in Italia: oltre 5,5 miliardi di euro complessivi, corrispondenti al 26 per cento circa del totale. Un dato che trova conferma nelle analisi sulla realtà torinese – nota per la sua eccellenza gastronomica – ma solleva interrogativi sul valore aggiunto reale per l’economia della città. Nonostante l’evidente foodification di alcuni quartieri del centro, trasformati da anni in colossali distretti del cibo (e nonostante l’aumento del 30 per cento dei locali aperti in agosto, celebrato nei giorni scorsi dalle associazioni di categoria), il saldo tra il numero dei nuovi locali e quello di chi ha abbassato le serrande per sempre è negativo. Nel 2024, dicono dall’associazione torinese dei commercianti (ASCOM) «le aperture sono state 424 contro 1.055 chiusure. Un saldo negativo che testimonia la fatica strutturale di molte imprese a reggere i costi e a intercettare una domanda piuttosto instabile».

La città è davvero pronta al cambiamento?

Secondo lo studio Gli italiani e il turismo, pubblicato nel maggio scorso da Unipol-Changes, il 53 per cento dei torinesi considera il turismo «un’opportunità economica», anche se il 13 per cento comincia a temere i disagi dell’overtourism. Inoltre, a livello nazionale il 41 per cento degli italiani prevede un incremento dei visitatori negli anni a venire.

Tuttavia, è opinione comune che Torino – e chi la governa – siano di fronte al difficile compito di conciliare le spinte verso una strategia turistica con la necessità di rilanciare l’industria. «Sono convinta che Torino non diventerà mai, e dico anche per fortuna, una città soltanto turistica», ha detto ad esempio la presidente del Museo Egizio Evelina Christillin. «Le nostre mani affondano nella cultura operaia, artigiana e manifatturiera. Per questo penso che Torino non possa abdicare dal suo ruolo rivolto alla produttività e alla produzione, e non solo a servizi e turismo».

Pur festeggiando la crescita dei flussi, anche l’amministrazione locale ha più volte affermato che il turismo può costituire solo una componente dell’economia cittadina, e non un’alternativa alla manifattura e all’innovazione. L’obiettivo dichiarato è di lavorare su entrambi i fronti: valorizzare il patrimonio culturale, ma anche sostenere le imprese, le start-up tecnologiche, i centri di ricerca, puntando su settori come l’industria 4.0 e la sostenibilità: «La città non è solo eventi e non è solo industria. Noi abbiamo bisogno di posti di lavoro stabili, che possono venire da tutti questi settori», sostiene il sindaco Lo Russo. Dello stesso parere il mondo industriale, specialmente nell’hinterland della città, colpito in misura pesante dalla crisi dell’indotto FIAT. «Il rischio concreto è che il mito del turismo come panacea di tutti i mali diventi l’ennesima illusione, mentre il tessuto industriale si sfalda e le comunità locali si impoveriscono», dichiara a L’Unica Dario Kafaie, presidente del Gruppo imprese chieresi. «Vogliamo la manifattura, non il turismo, o difendiamo le imprese locali o diventiamo camerieri nel nostro territorio».

Parole dure, destinate (forse) a sollevare qualche polemica. «La continua contrapposizione tra turismo e manifattura è stucchevole e ci danneggia, come se il nostro fosse un settore “vuoto”, che vale un po’ meno – ha detto il presidente di Federalberghi Fabio Borio, rispondendo su La Stampa alle dichiarazioni di Christillin –. In realtà le vocazioni di Torino sono strettamente collegate: se vince una, vince anche l’altra».

La soluzione, come quasi sempre, sta nel mezzo. Ma non è un “mezzo” facile da raggiungere: «Non si tratta solo di accogliere più turisti, ma di attrarre valore», spiegano gli analisti che hanno presentato il Rapporto Nexi. «Per farlo servono infrastrutture moderne, servizi digitali e una strategia di promozione che sappia parlare a target diversi, integrando cultura, paesaggio, enogastronomia e shopping». Alla fine, la sfida per la città è questa: riposizionarsi a metà strada tra passato e futuro, senza rinunciare a nessuno dei suoi patrimoni.

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