Sul campo rom destra e sinistra si scambiano i ruoli
Alessandria si racconta
Il 18 novembre si terrà il primo evento dal vivo de L’Unica: una serata dedicata alle storie della città di Alessandria, con il responsabile editoriale Guido Tiberga in dialogo con il professore di Storia del pensiero politico Giorgio Barberis.
📍 Ore 18 – LaRisto, Ristorazione Sociale (Viale Milite Ignoto 1/a, Alessandria)
🎟️ Ingresso gratuito
Massimo D’Azeglio, subito dopo l’Unità d’Italia, si era reso conto che il “lavoro” non era finito e che invece stava iniziando la parte più difficile, quella che avrebbe dato concretezza a un’azione politica che molti vedevano come imposta dall’alto. «Fatta l’Italia, dobbiamo fare gli italiani», è una delle frasi attribuite al politico risorgimentale. Ad Asti – fatte le dovute proporzioni – il raggiungimento di un traguardo politico difficile come lo smantellamento di un campo rom che per anni ha rappresentato una spina nel fianco delle amministrazioni si sta rivelando una tappa di un percorso ancora lungo, stando alle reazioni che stanno infiammando il dibattito politico in città. Insomma si è fatto ciò che si doveva fare, ma ora bisogna che le persone si convincano. Come dire: (dis)fatto il campo, bisogna fare gli astigiani.
Maurizio Rasero è il sindaco più istrionico che Asti abbia mai avuto, tanto da annunciare una conferenza stampa in città con un video che lo ritrae appeso a un cavo d’acciaio mentre attraversa sorridente un vallone su una qualche catena montuosa cinese. «Potevo fare un piccolo post e nessuno lo avrebbe considerato, invece così ho avuto 80 mila visualizzazioni», ha spiegato sui social. A dire la verità, invece di “considerato”, ha usato un termine più colorito, e già che c’era ne ha approfittato per dare dei «coglioni» ai concittadini che avevano commentato la sua performance in modo altrettanto vivace.
Le “paure contrapposte”
Rasero è Rasero, però sul campo rom ha sempre avuto le idee chiare: «Io al campo ci sono andato, per capire», aveva detto in un’intervista del 2019. «Ci sono 130 ragazzi nati ad Asti, se chiudo il campo dove li metto? Per me i cittadini sono tutti uguali». Dichiarazioni coraggiose, per un sindaco di centrodestra, visto che solo qualche mese prima una Giorgia Meloni non ancora istituzionale aveva riassunto il suo programma sui rom in modo piuttosto spiccio: «Sei nomade? Allora devi nomadare».
Dallo scorso 23 settembre il campo di via Guerra non esiste più. Ma la polemica non è finita, anzi. Gli abitanti sono andati a vivere da altre parti: case popolari, ruderi da ristrutturare, roulotte temporaneamente parcheggiate nei prati intorno alla città. Le reazioni? Ispirate alla più ortodossa sindrome NIMBY (Not in my back yard, Non nel mio cortile). In poche parole: siamo contenti che il campo non ci sia più, ma adesso non pensino di venire a vivere vicino a casa mia.
Un esempio: due famiglie rom hanno acquistato un appezzamento di terreno di 1.500 metri quadrati lungo il torrente Borbore. Da qualche mese nell’area sono arrivate altre famiglie, tra le proteste dei residenti nella zona. «Nell’area erano già presenti baracche quando si sono insediate le nuove famiglie – ha replicato il sindaco – ma, se prima erano abbandonati a loro stessi, ora invece sono seguiti» dagli assistenti sociali. Un altro esempio: alcuni rom, peraltro non provenienti da via Guerra, hanno comprato un terreno appena fuori dai confini di Asti, nel territorio di Castell’Alfero. «Un“regalo” che ci arriva dal Comune di Asti», ha commentato furioso Giancarlo Fasano, il sindaco del paese, annunciando provvedimenti di sgombero immediato, invocando motivi di sicurezza e la necessità di tutelare il paesaggio.
«Si sta verificando lo scontro di due paure, quella dei rom e quella dei cittadini», ha commentato Roberto Giolito, dirigente dei Servizi sociali del Comune. Parlando con i cronisti locali, i professionisti che si erano occupati della vicenda si sono detti «abbattuti e calpestati». Gli assistenti sociali Cristina Gai e Mikaela Piazentin e gli educatori Valeria Busato e Stefano Contento sono entrati nel campo, hanno parlato con le persone rom, li hanno convinti a fidarsi. «Sui rom tutti hanno opinioni e cose da dire, fatti di cronaca da raccontare, storie “per sentito dire”. Ma quasi nessuno ha avuto modo di stringere una relazione significativa con uno di loro, magari entrando nella baracca di un campo per comprendere chi realmente sono», hanno detto a La Stampa. «In via Guerra c’era una comunità nella comunità dove la gente in difficoltà solidarizzava, adesso invece che i residenti sono collocati sul territorio, ci troviamo ad assistere a un processo di disumanizzazione delle persone, toccando con mano l’antiziganismo», a tutti gli effetti una forma di razzismo.
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La storia e la politica
La storia del campo rom di Asti è vecchia di trent’anni: l’insediamento è nato negli anni Novanta, quando la Giunta guidata da Giorgio Galvagno (allora sindaco di Forza Italia, oggi presidente della Banca di Asti), diede ospitalità a profughi delle guerre balcaniche. Si chiamavano Halilovic, Seferovic e Beganovic, ancora oggi si chiamano così. La maggior parte di loro proveniva da Banja Luka, una cittadina della Bosnia-Erzegovina segnata dalla guerra, dalle violenze e dagli eccidi, culminati nel 1993 con la distruzione da parte dell’esercito serbo della moschea di Arnaudija. Quindi non nomadi che dovrebbero «nomadare», ma donne, uomini e bambini in fuga dai massacri e dalla guerra.
Asti li ha accolti e poi se ne è dimenticata per tanto tempo. Salvo riaccendere i riflettori il 23 settembre di quest’anno, quando l’ultimo rom ha lasciato quello che più che un campo era una «baraccopoli», come ha più volte scritto e detto Carlo Stasolla, responsabile dell’“Associazione 21 luglio”, incaricata dal Comune di gestire lo smantellamento: una vera e propria favela a dieci minuti dal centro storico e dal salotto buono della città.
Durante il primo mandato di Rasero (2017-2022) aveva preso in mano la questione il vicesindaco Marcello Coppo (Fratelli d’Italia), diminuendo la portata dell’acqua potabile al campo, chiedendo il pagamento delle bollette arretrate e scrivendo un nuovo regolamento della baraccopoli. I rom non se n’erano andati, nonostante le speranze di Coppo, che in un’intervista aveva ripetuto pari pari lo slogan di Meloni: «I nomadi devono nomadare».
Nel 2022, Coppo è andato a Roma a fare il deputato. Il secondo mandato di Rasero ha affrontato la questione in forma più soft: i volontari dell’“Associazione 21 luglio” che hanno parlato con ognuno dei 145 residenti (stando all’ultimo censimento: 63 maggiorenni e 82 minori) e li hanno accompagnati fuori. L’area di via Guerra verrà venduta a un’azienda che si occupa di rifiuti. L’operazione è costata 285 mila euro. «Tutti finanziati con fondi statali – ha precisato Rasero –. Oltre ai ricavi della vendita del terreno avremo un risparmio di 100 mila euro all’anno per le utenze dell’acqua e della luce collegate al campo», che nonostante le ingiunzioni di Coppo nessuno aveva mai pagato. Ma la cosa più importante – ha proseguito il sindaco – è un’altra: «Tutto è avvenuto senza ruspe, slogan o con sgomberi forzati ma con il pieno accordo di tutti gli attori».
I ruoli rovesciati
Sono bastati pochi giorni perché partisse la bagarre, la corsa a monetizzare il superamento del campo e la “diaspora” che ne è seguita. Sulla scena è tornato Coppo, che sui social ha pubblicato un video in cui si è intestato il merito della chiusura. Coppo, nel video, abbassa simbolicamente l’interruttore dell’energia di un campo già vuoto da giorni, passeggiando tra le baracche abbandonate: «Promessa mantenuta», dice. Grazie al lavoro di altri che lui non nomina nel video, verrebbe da rispondere: i Servizi sociali del Comune.
Questo è quanto arriva da «destra». Ma da «sinistra» è ancora peggio, perché non te lo aspetti. I rom, dopo la chiusura, non sono scomparsi nel nulla ma sono andati a stare da altre parti ed ecco che arrivano le proteste dell’opposizione, pronta a cavalcare le proteste della popolazione: Mario Malandrone di Ambiente Asti ha presentato un’interpellanza in Consiglio comunale per le famiglie accampate sul Borbore. L’ex assessore Piero Vercelli (PD) ha fatto un sopralluogo: «Ho riscontrato manufatti precari in golena, in un tratto delicato per un eventuale deflusso della piena – ha dichiarato –. Non ci si può spostare da una zona a rischio a una ancora più a rischio: in caso di piena qui si va a bagno in due secondi».
Probabilmente non ha torto, ma è difficile non vedere in queste prese di posizione la trasformazione dei rom in una sorta di arma politica dell’opposizione contro la maggioranza, del centrosinistra contro il centrodestra, in un ribaltamento dei ruoli che sorprende fino a un certo punto: a pensar male, i cittadini che non vogliono i rom votano, i rom (probabilmente) no.
Il malumore dei cittadini che si sono ritrovati i rom come vicini di casa è palese, anche se non ci sono stati motivi concreti di tensione. Il superamento del campo non è bastato «per destrutturare lo stigma, i pregiudizi e le discriminazioni nei confronti di un popolo, come quello Romanì», ha commentato Rasero. «Con la chiusura della baraccopoli è caduto il muro del “noi “ e “loro” – hanno aggiunto Cristina Gay e Mikaela Piazentin, le assistenti sociali che hanno incontrato i giornalisti –. Adesso dobbiamo lavorare sul “noi”, sul superamento dei pregiudizi, delle narrazioni strumentali e dei commenti sensazionalistici». Come dire: (dis)fatto il campo, ora bisogna fare gli astigiani.
Questa puntata di L’Unica Asti termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.
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