Le cantine sono piene, il vino non si vende più

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Faccelo sapere quiChi solleva il problema, diventa il problema, recita un detto popolare. Soprattutto, insistono i vecchi saggi, i problemi andrebbero tenuti nascosti: «Sempre allegri bisogna stare», cantava Dario Fo, perché i potenti «diventan tristi se noi piangiam». Nonostante questi dotti ammonimenti, sia Stefano Ricagno, presidente del Consorzio dell’Asti DOCG, sia Vitaliano Macario, presidente del Consorzio del Barbera, hanno detto, scritto e ripetuto a chiare lettere che il vino non si vende più.
Lo dicono loro e lo dicono i numeri. Nelle cantine del Consorzio dell’Asti quest’anno giace un esubero di cento ettolitri di mosto di Moscato, 40 mila ettolitri di vino rosso sono stoccati nei depositi dei produttori di Barbera e altri 55 mila ettolitri tra Cortese, Dolcetto e Brachetto sono fermi in altri magazzini del territorio. Sono i dati della Confederazione Nazionale Agricoltura (CNA) di Asti e Alessandria. Cifre preoccupanti, che potrebbero anche mettere a rischio la prossima vendemmia: perché se le cantine sono piene, produttori e consorzi non saprebbero dove mettere le nuove uve. Uve che sono coltivate su un territorio che, proprio grazie ai paesaggi di vigneti, è diventato Patrimonio mondiale dell’umanità per l’Unesco. Un riconoscimento che, secondo le analisi di Formules – società di consulenza strategica fondata e gestita dall’economista Guido Gurzoni – ha portato sul territorio una ricaduta economica in termini di aumenti dei prezzi dei fabbricati, arrivo di turisti e ritorni di immagine di oltre 200 milioni di euro in dieci anni. È stato calcolato che un euro investito nel 2014 (anno del riconoscimento da parte dell’Unesco) ora ne vale 2,37.
Se crolla il mercato del vino, le viti non serviranno più e finiranno per essere estirpate, come del resto già da un paio d’anni stanno facendo i produttori francesi nella regione del Bordeaux, nota per i suoi vini pregiati. Le alternative sono poche: «Il vigneto non è un campo di mais: produce tutti gli anni e non è possibile piantare a seconda di ciò che succede», spiega Giulio Porzio, presidente della cantina sociale di Rocchetta Tanaro e di Vignaioli Piemontesi, la più grande organizzazione di produttori d’Italia.
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I presidenti dei due Consorzi astigiani hanno denunciato il problema e – come insegna la cara, vecchia saggezza popolare – il problema sono diventati loro. I potenti di turno non sono diventati tristi come nella canzone di Dario Fo, ma hanno rovesciato la questione: non è il vino che non si vende, sono loro che non sono capaci di venderlo.
«La crisi del vino in Piemonte non esiste», ha detto senza mezzi termini l’assessore regionale all’Agricoltura Paolo Bongioanni, che la settimana scorsa ha incontrato i produttori al grattacielo della Regione Piemonte. «Bisogna saper fare gli imprenditori del vino, interpretare il mercato e capire quali sono gli interventi seri, strutturali, da fare», ha spiegato. «All’ultimo tavolo in Regione, ho incontrato tredici consorzi piemontesi del vino che non hanno problematiche e due e mezzo che le riscontrano storicamente: nel 2011, nel 2020, nel 2023 e nel 2025. Mi pare un po’ azzardato parlare di crisi del vino in Piemonte. C’è una crisi, sì, ma è puntuale e riguarda i soliti dell’alto Astigiano».
I «soliti», manco a dirlo, sono Ricagno e Macario. Peccato che quelli che rappresentano non siano due consorzi qualsiasi, ma rappresentino la gran parte della superficie coltivata a vite in tutto il Piemonte.
Il problema, opinioni della Regione a parte, esiste. Però – al di fuori delle figure istituzionali – è difficile farlo emergere con delle dichiarazioni ufficiali. L’Unica ha cercato alcuni presidenti di cantine sociali. La maggioranza ammette un calo di vendite del 20-30 per cento, ma tutti chiedono l’anonimato nel timore di peggiorare ulteriormente il problema: «Non scrivetelo, per carità – implora uno di loro –. Se i clienti lo sapessero, comprerebbero ancora meno vino. O pretenderebbero dei forti sconti. E noi finiremmo nei guai».
In Toscana hanno meno paura che in Piemonte e, di recente, hanno proposto alla Regione di fare le stesse cose che già si fanno nell’area del Bordeaux e che qualcuno vorrebbe fare anche da noi: intervenire a partire dalla vendemmia “verde” – che prevede la distruzione dei grappoli non ancora maturi – sfoltire i tralci e produrre di meno, non impiantare più nuovi vigneti, fare grappe e acqueviti del vino invenduto ed estirpare parte dei vitigni esistenti.
C’è da dire che Bongioanni non sta fermo con le mani in mano: l’assessore, pur non ammettendo ufficialmente il problema, cerca e propone soluzioni. La prossima settimana sarà a Roma per un confronto con i tecnici del Ministero dell’Agricoltura e ha proposto di cambiare il disciplinare per la produzione del Vermouth, il vino aromatico che dal Settecento è tra le specialità della regione: «Oggi il disciplinare dà la possibilità di utilizzare vini italiani, ma potrebbe circoscrivere il campo solo ai vini piemontesi, assorbendo così 5 milioni di bottiglie», spiega. «Ne parlerò con il presidente del consorzio Roberto Bava. Tutto quello che possiamo fare, lo faremo».
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Le ragioni della crisi
Ma perché la crisi sta colpendo con così tanta violenza un settore vitale per il Piemonte? Le prime risposte sono da ricercare nelle tensioni internazionali. Un dato su tutti: il Consorzio dell’Asti esportava in Russia oltre 17 milioni di bottiglie, quest’anno, se va bene, i milioni saranno 6. Si stima che più di dieci milioni di bottiglie rimarranno in cantina.
C’è la guerra in Ucraina, ma ci sono anche i dazi di Trump che, se confermati, andranno a colpire le esportazioni in un mercato gigantesco come quello statunitense. «Da mesi il settore, che negli Stati Uniti spedisce il 24 per cento (1,94 miliardi di euro) dell’intero export enologico, non riesce più a programmare il proprio futuro, e questo è un danno enorme, a prescindere dall’entità del dazio», commenta il presidente di Unione Italiana Vini (UIV), Lamberto Frescobaldi.
Poi ci sono i cambiamenti di abitudini, le “criminalizzazioni” dell’alcol e l’aumento dei prezzi. I giovani preferiscono birra e superalcolici al vino e il nuovo Codice della strada, entrato in vigore a dicembre 2024, ha dato il colpo di grazia. La gente, infine, beve di meno anche perché non può più permetterselo: l’inflazione è pesante e i prezzi sono alle stelle, anche chi ha uno stipendio spesso sfiora la soglia di povertà. Il vino è roba da ricchi e lo diventerà sempre di più. Per questo i produttori vogliono produrne di meno. Le leggi del mercato parlano chiaro: se c’è tanta offerta ma poca domanda il prezzo crolla. E, se crolla il prezzo di un vitigno trainante come può essere il Moscato, viene giù tutto il castello di carte. «La nostra è una uva che crea reddito, venduta a 12 mila euro per ettaro quando buona parte delle altre denominazioni piemontesi spesso non superano i 10 mila», ha detto Ricagno.
Insomma, il mondo del vino, che nel corso dei decenni ha saputo superare difficoltà enormi, è a rischio. Forse più che nei suoi momenti più duri, a partire da fine Ottocento, quando i danni della filossera, l’insetto che attacca le viti alla radice distruggendo migliaia di piante, mandarono sul lastrico decine di vignaioli, costringendo la gran parte di loro a emigrare verso il Sud America. In tempi più recenti, negli anni Ottanta del secolo scorso, il vino piemontese ha saputo riprendersi dallo scandalo del metanolo, la truffa che portò alla morte 23 persone, avvelenate dall’alcol tossico utilizzato per alzare la gradazione del prodotto. Oggi sta combattendo, sia pure senza troppo impegno, il capolarato nelle vigne, lo scandalo degli stranieri sfruttati e costretti a lavorare per pochi euro in assenza di condizioni di sicurezza.
Vittorie difficili, in battaglie durissime. Ma in questo 2025, di fronte ai problemi della sovraproduzione, i nostri vignaioli non hanno ancora risposte sicure. Una cosa è certa: senza vino, le viti non servono e senza viti il Patrimonio Unesco non ha più ragione d’essere. «Un paesaggio generato dal costante lavoro dell’uomo», si legge sul sito dell’Unesco. Ma anche un paesaggio monocolturale, con tutti i suoi rischi. Se l’uomo avesse plasmato un paesaggio di questo tipo in Centro America o in Brasile, forse, sarebbero insorte legioni di ambientalisti a difenderlo. Da noi no: il vino è sacro e per lui si continua a chiudere un occhio. Anche due. Fino a rimanere ciechi.
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