Congelare gli ovociti in Piemonte: la storia di Giulia

Congelare gli ovociti in Piemonte: la storia di Giulia
Foto da Pexels

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«Avevo voglia di investire sulla possibilità di avere un figlio in futuro, per questo ho scelto di congelare i miei ovociti». Giulia Ceirano, 32 anni, scrittrice e content creator piemontese, descrive la sua decisione con la calma di chi, prima di agire, ha ponderato a lungo.

Originaria di Lagnasco, un piccolo paese del Cuneese, la vita l’ha portata a muoversi tra Torino, Parigi e ora la Sicilia. È in una clinica torinese però che ha scelto di affrontare il percorso di crioconservazione della fertilità (o social freezing): una decisione che rivela autodeterminazione, ma anche consapevolezza del tempo e del corpo.

«Da anni nutrivo l’idea di fare questo passo», ha raccontato a L’Unica. Prima di iniziare, ha sottolineato, è fondamentale valutare attentamente le proprie condizioni. «Sono allergica ad alcuni farmaci antinfiammatori, quindi ogni intervento lo affronto con un’attenzione in più e sempre confrontandomi con il mio medico. Ci ho riflettuto per due anni prima di decidere e poi mi sono convinta. Volevo investire, anche economicamente, nella prevenzione. L’idea era preservare la mia fertilità: non perché volessi avere un figlio subito, ma per mettere da parte la possibilità di farlo in futuro». Parole senza esitazioni, ma anche con una precisione che rivela quanto si sia informata. «Non vorrei dei figli oggi, ci sono cose a livello professionale che ho voglia di fare, non è il momento giusto», ha spiegato. 

Il servizio sanitario nazionale non copre l’intervento

La conservazione degli ovociti e la preservazione della fertilità in Italia sono ancora quasi poco conosciute. «Se ne parla pochissimo – ha spiegato Ceirano - io ho vissuto tra Torino e Parigi e in Francia se ne discute spesso. Da loro è gratis, le spese sono a carico del sistema sanitario nazionale. La mia conoscenza della situazione francese mi ha fatto pensare di affrontare questo percorso, anche perché mi sono confrontata con amiche che lo avevano fatto».

In Italia, il Servizio Sanitario copre questo genere di intervento soltanto nei casi di donne con patologie gravi, come chi deve affrontare cure oncologiche (che rischiano di compromettere la capacità riproduttiva). Per tutte le altre, si tratta di una spesa privata, con un costo che può oscillare fra i 3 e i 4 mila euro, a cui si aggiungono i trattamenti medici necessari e i costi per la conservazione.

«Il farmaco di cui avevo bisogno – ha sottolineato Ceirano a L’Unica – costava 950 euro nel nostro paese, in Francia 80. Per questo l'ho comprato lì». La procedura non è immediata. «La fase di visite preliminari l’ho iniziata nella prima metà di marzo: ecografie, esami del sangue, controllo dell’ormone antimulleriano per misurare la riserva ovarica. Poi il 28 marzo ho fatto il prelievo. Si deve iniziare in determinati momenti del ciclo: in un mese, un mese e mezzo, si fa tutto».

La procedura, dagli esami all’intervento

La stimolazione ovarica è la parte più delicata. Viene effettuata mediante l’uso di specifici farmaci ormonali, che agiscono in modo controllato per favorire lo sviluppo di più follicoli ovarici. «Si tratta di punture da farsi nell’addome, una al giorno, da 6 a 12 giorni, ma il numero dipende da donna a donna – ha spiegato – Durante questo periodo ogni tre giorni si fanno ecografie ed esami del sangue per controllare la risposta del corpo. In base a questo si decide la data del prelievo. Io ho fatto otto giorni di stimolazione e poi l’intervento, in anestesia. Si entra in clinica, si sta un paio d’ore. Attraverso un’ecografia transvaginale un ago aspira gli ovociti».

Non esiste un numero fisso di ovuli utilizzabili: «Tendenzialmente un buon risultato è tra 10 e 12 ma eventualmente il ciclo si può anche ripetere», ha detto ancora Ceirano. Dopo l’intervento si sta a riposo. «Io sono rimasta ferma per un paio di giorni, la pancia era un po’ dolorante». Gli effetti più forti, però, Giulia ha rivelato di averli sentiti negli ultimi giorni di stimolazione, poco prima dell'intervento: «Sbalzi d’umore, gran gonfiore addominale, un po’ di peso alla pancia. Ma passa. È stata un’esperienza impegnativa, ma mi sento più serena. È come se avessi acquistato del tempo».

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Gli ovociti, alla fine del trattamento, restano congelati in clinica: il primo anno è incluso, poi 200 euro all’anno per la conservazione. Giulia ha deciso di lasciarli lì, in attesa. «Posso utilizzarli con un percorso di procreazione medicalmente assistita, ma non c’è garanzia di successo. Oppure potrei trasferirli in un’altra clinica europea. In Spagna, per esempio, potrei anche donarli o usarli con un donatore. In Italia, le regole sono più restrittive».

Una scelta che coinvolge sempre più donne

Giulia Ceirano fa parte di una generazione di donne che affrontano apertamente il tema della fertilità e del tempo. Non solo per motivi medici, ma anche personali, lavorativi, economici. In Italia, il numero di donne che scelgono di congelare gli ovociti è aumentato del 50 per cento in un solo anno, tra il 2023 e il 2024.

Il gruppo Genera – la più grande rete italiana di centri specializzati in medicina e biologia della riproduzione – ha registrato un incremento costante. Soltanto a Torino, il centro Genera Livet ha visto un +28 per cento di richieste in un anno. «Le donne italiane sono sempre più inclini alla crioconservazione degli ovociti grazie alla maggiore informazione sul tema», ha raccontato a Quotidiano Piemontese la dottoressa Francesca Bongioanni, ginecologa e direttore medico di Genera Livet di Torino.

«Molte di loro – ha spiegato – cercano soluzioni per difendere il proprio potenziale riproduttivo e pianificare la gravidanza in un momento più adatto. Sebbene il numero di procedure sia in crescita, siamo ancora lontani da una diffusione su larga scala: a Torino si eseguono circa cento procedure l’anno, solo il 10 per cento dei cicli di procreazione medicalmente assistita (PMA) nel nostro centro».

A influenzare la scelta è soprattutto la consapevolezza del tempo biologico. La fertilità femminile inizia a diminuire già dopo i 30 anni e subisce un calo più netto dopo i 35. L’età media del primo figlio in Italia, però, continua a salire: oggi è di 32,4 anni, tra le più alte d’Europa.

Alberto Vaiarelli, ginecologo e responsabile medico-scientifico del centro Genera di Roma, ha spiegato a Quotidiano Sanità che «nel corso di questo anno abbiamo visto aumentare le richieste di accedere a questa procedura che consente di mettere da parte un “tesoretto” di ovociti che potranno poi essere utilizzati se, eventualmente, negli anni si avranno problemi nel concepimento naturale».

Vaiarelli ha precisato però che siamo «ancora molto lontani da una diffusione su larga scala», perché «i farmaci sono a carico del paziente e ancora oggi la maggioranza dei centri pubblici assicura il congelamento ovocitario solo per i casi oncologici. Ma abbiamo anche notato un aumento di donne che vengono indirizzate a questo percorso dai loro medici di famiglia o ginecologi di fiducia […]. L’efficacia della crioconservazione ovocitaria dipende soprattutto dall’età e dalla riserva ovarica (numero di ovociti a disposizione), motivo per il quale consigliamo di procedere entro i 35 anni di età».

Dietro alla decisione di Giulia, come di molte altre donne, non c’è soltanto una scelta sanitaria, ma anche culturale. È un modo per riappropriarsi di una possibilità e di una libertà che per generazioni era affidata al caso o al calendario.

In un Paese dove la maternità arriva sempre più tardi e le tutele per le madri lavoratrici restano fragili, il social freezing diventa anche un messaggio culturale: la richiesta di tempo, libertà e futuro. «In Francia – ha detto Giulia a L’Unica – questo discorso è molto più aperto. Le donne ne discutono, ci sono campagne pubbliche, il tema non è un tabù. In Italia invece sembra quasi un lusso, qualcosa di cui non si può parlare senza essere giudicate».

Il suo racconto restituisce la misura di una scelta che è insieme intima e politica. Un investimento sul corpo, ma anche sulla possibilità di decidere. «Per me è stato un modo di fare pace con l’idea del tempo che passa. Non voglio essere schiava della paura di arrivare tardi. Ho scelto di mettere da parte la possibilità, non l’obbligo, di diventare madre», ha detto.

Oggi i suoi ovociti sono custoditi in un laboratorio torinese, a -196 gradi. A queste temperature le reazioni chimiche e metaboliche delle cellule si arrestano quasi completamente, permettendo la conservazione anche per decenni senza degradazione significativa.

Giulia non sa se li userà mai. Ma la sensazione che prova è di «leggerezza. Mi sento più libera – ha spiegato – È come se avessi dato al mio futuro una chance in più». Non un rinvio, ma un modo per restare padrone del proprio destino.

Questa puntata di L’Unica Torino termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.

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