A Torino nessuno vuole il CPR

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Il 23 maggio scorso, quasi due mesi dopo la riapertura, all’ingresso del Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Torino sono stati posati dei fiori. Li hanno portati per commemorare la morte di Moussa Balde, il ragazzo della Guinea che quattro anni fa si tolse la vita all’interno della struttura. Mentre il drappello di persone che si è riunito osserva un minuto di silenzio, qualcuno guarda dai balconi che si affacciano sul CPR. Nel ristorante etnico di fronte il via vai di clienti prosegue.
A differenza di ciò che accade altrove, il CPR di Torino sorge nel cuore di un centro abitato, occupando con i suoi tremila metri quadrati l’intero isolato compreso tra corso Brunelleschi e via Santa Maria Mazzarello, nel quartiere di Borgata Lesna, cintura ovest della città. «Vivo di fronte al CPR da quando nel ‘99 è stato aperto come Centro di identificazione ed espulsione», racconta a L’Unica Stefania Padoani, referente del comitato di quartiere. «Tante volte ho visto il fumo uscire da lì per gli incendi appiccati e sentito le urla di chi sta dentro. Quando a protestare sono alcune manciate di persone da fuori, la zona viene pattugliata con un dislocamento di forze dell’ordine impressionante: lo stesso che viene impiegato per gestire le persone all’interno, poche in confronto».
Dopo essere stato chiuso nel 2023 per via dei danni strutturali provocati dalle rivolte dei reclusi, il CPR è tornato operativo a marzo 2025. Alla sua riapertura si sono opposti e continuano a opporsi l’amministrazione comunale, una rete civica composta da più di trenta enti del terzo settore, il comitato di quartiere, quello dei commercianti e movimenti informali.

La gara di appalto
Nel 2023 il consiglio comunale ha approvato un atto che impegna la giunta torinese a manifestare a tutti i livelli la contrarietà nei confronti della struttura. Nel frattempo, Monica Gallo, garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, e Jacopo Rosatelli, assessore a Welfare, Diritti e Pari opportunità della Città di Torino, provano a proporre un’alternativa. Pubblicano uno studio in cui vengono esaminate le modalità che permetterebbero di procedere al riconoscimento e all’espulsione dei cittadini stranieri privi di permesso di soggiorno senza passare dal trattenimento nel CPR. «Lo abbiamo mandato al prefetto senza ricevere risposta, se non che lo studio sarebbe stato mandato a Roma. Poi il governo è andato avanti per la sua strada», dice Rosatelli a L’Unica.
Nonostante la presa di posizione della città, ribadita anche dal sindaco Stefano Lo Russo, la prefettura bandisce la gara di appalto per assegnare la nuova gestione del centro. Intanto la cittadinanza si organizza. Promossa dalla circoscrizione comunale in cui il CPR ha sede e da alcune associazioni, nasce la Rete torinese per il superamento dei CPR. «Questi centri rappresentano una violazione dei diritti umani fondamentali e perpetuano un sistema ingiusto, inumano e degradante. Crediamo fermamente nella cultura del rispetto della dignità e dei diritti delle persone migranti», spiegano gli aderenti, tra cui Libera, il Gruppo Abele, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, ANPI, CGIL e la Pastorale migranti della diocesi.
Seguono alcuni presidi pacifici e manifestazioni per chiedere di non riaprire, ma a fine 2024 la holding della sanità privata Sanitalia si aggiudica l’appalto per oltre 8,4 milioni di euro. A seguito della ristrutturazione, il centro è organizzato in tre aree che possono contenere fino a 70 persone in attesa di rimpatrio e il presidente di Sanitalia Simone Fabiano promette una gestione della struttura «ad alto livello». Durante il sopralluogo svolto poche ore dopo l’arrivo dei primi trattenuti nella notte del 25 marzo, però, il garante dei detenuti della Regione Piemonte Bruno Mellano dichiara che la condizione del CPR è molto simile a quella precedente alla chiusura, tra acqua gelida nelle docce e basse temperature all’interno della struttura.
Nella propria candidatura come ente gestore, inoltre, Sanitalia afferma di aver sottoscritto un protocollo di intesa con il Dipartimento per la salute mentale dell’ASL di Torino, per assicurare «adeguata assistenza sanitaria» alle persone trattenute. La consigliera di Alleanza Verdi e Sinistra della Regione Piemonte Alice Ravinale ha chiesto conto di questo accordo con un’interrogazione, ma Ravinale ha detto a L’Unica che l’ASL le ha risposto che il protocollo non esiste.
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Ventidue «eventi critici» in un mese
Come documentato da Luca Rondi su Altreconomia, nei primi 29 giorni l’ente gestore annota nel proprio registro 22 «eventi critici», cioè «atti di autolesionismo, diverbi, proteste e lesioni». Nelle notti del 30 aprile e del 16 maggio i reclusi insorgono due volte rendendo due dei tre padiglioni del centro inagibili. Ma su quello che accade durante le rivolte, i responsabili del CPR non condividono informazioni. Ai politici che fanno richiesta di entrare per verificare le condizioni della struttura e dei reclusi viene limitato o negato l’accesso. Intanto alcune persone trattenute vengono trasferite verso i centri di altre regioni.
«Come Rete abbiamo chiesto alla prefettura un incontro urgente perché non vogliamo che cali il velo di silenzio», dice a L’Unica Elena Ferro, segretaria della CGIL di Torino, tra i promotori della Rete civica No CPR. «Vogliamo sapere esattamente quali sono le condizioni delle persone recluse e cosa è successo negli eventi critici che sono avvenuti nel CPR, di cui nessuno risponde». A monitorare il centro per i rimpatri della città è ufficialmente un comitato istituito dalla prefettura. Come rappresentante del Comune, il sindaco Lo Russo ha nominato Guido Giustetto, presidente dell’Ordine dei medici di Torino, che dopo le rivolte ha partecipato alla prima ispezione all’interno del CPR.
«La nostra è un’attività di monitoraggio di tipo tecnico: personalmente ho valutato i protocolli del servizio medico, psicologico e della mediazione culturale che vengono forniti e mi sono sembrati sufficienti – spiega a L’Unica Giustetto –. Finora però non abbiamo incontrato direttamente il medico responsabile della struttura. Ci siamo basati sulle cartelle e su quello che ci ha comunicato l’infermiere presente». Come constatato durante l’ispezione, i locali del cosiddetto “ospedaletto”, dove il 23 maggio 2021 è morto Moussa Balde dopo giorni di isolamento, sono stati chiusi: «Al suo posto, di fianco all’ambulatorio medico, c’è una camera dedicata all’osservazione, così viene chiamata».
I dirigenti accusati di omicidio colposo
Francesca Troise, presidente della circoscrizione dove ha sede il CPR, dice che la morte di Balde rappresenta «una vergogna incancellabile» con cui la città convive tuttora. Attualmente l’ex direttrice del centro di permanenza per il rimpatrio e il suo ex responsabile sanitario sono accusati di omicidio colposo per aver omesso i controlli necessari a prevenire il suicidio dei trattenuti, violando le linee guida nazionali e internazionali previste per i centri di detenzione.
Già nel 2019, ricorda Giustetto, le carenze dal punto di vista sanitario erano evidenti. Quello stesso anno a togliersi la vita proprio nell’ospedaletto era stato un altro cittadino straniero, il trentenne bengalese Faisal Hossein. «Con la vecchia gestione e in accordo con la prefettura, come Ordine dei medici avevamo avviato un programma di volontariato all’interno del CPR, poi con la pandemia e le varie rivolte che sono seguite l’iniziativa è stata sospesa».
Mentre abitanti della zona, associazioni e maggioranza comunale chiedono che il CPR di Torino chiuda per sempre, le esistenze di chi sta dentro e di chi sta fuori continuano a influenzarsi reciprocamente, tenute a distanza da un muro di cemento. Per chi vive nel quartiere, le difficoltà quotidiane sono soprattutto legate alla convivenza con le proteste e alla militarizzazione delle strade; per chi si oppone alla gestione securitaria dell’immigrazione e alla costante violazione dei diritti umani documentata nei CPR, la mobilitazione collettiva è essenziale. Di chi sta dentro, per ora, si hanno poche notizie e il fumo dei fuochi accesi resta uno dei pochi modi per comunicare con l’esterno.
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