Ex-Ilva, il forno elettrico che divide Cornigliano
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L’ultima colata dell’altoforno avvenne un giorno di fine luglio del 2005. Vent’anni fa: l’estremo respiro dell’animale morente. Oggi la tormentata vicenda dello stabilimento di lavorazione dell’acciaio di Cornigliano, dove il governo ha intenzione di costruire un forno elettrico, si presenta ancora come una lenta agonia, che racconta bene un pezzo di storia del Paese e il dilemma del futuro di Genova (e dell’Italia), costretta a fare i conti con la crisi dell’industria. Perché l’ex-Ilva era La fabbrica per antonomasia, quella di Guido Rossa che denunciò le infiltrazioni delle Brigate rosse. Dove vennero in visita Papa Francesco (nel 2016) e il presidente Mattarella (nel 2019). Quella che dava lavoro a migliaia di operai, ispirando – per la sua macchinosa gerarchia – la satira di Paolo Villaggio (che lì fu impiegato) con il suo ragionier Fantozzi.
Ma dopo un susseguirsi di fusioni e privatizzazioni, progetti di salvataggio falliti e una crisi che oggi – a livello nazionale – è una emorragia da 50 milioni di euro al mese, con appena 1.200 dipendenti a Genova, ecco che il materializzarsi del piano di un forno elettrico riporta a galla la contrapposizione irrisolta tra lavoro e salute. Mentre ancora bruciano le ferite di un quartiere che fu industriale e che oggi è ancora in cerca di identità e riscatto.
Politicamente, è il primo intoppo della sindaca Silvia Salis, ancora in luna di miele con la città: la sua apertura rispetto all’ipotesi di forno elettrico le è costata la prima vera contestazione, lo striscione con la sua caricatura mentre offre ai bambini una barretta “d’acciaio al particolato”. Un’immagine che, ha detto Salis a La Repubblica, «non nego mi abbia fatto male».
L’ultimo capitolo della tormentata storia è ben raccontato da un’immagine: due cortei contrapposti. È successo il 4 settembre, quando più di un migliaio di persone è sceso in piazza per le vie di Cornigliano alla manifestazione indetta dal “Comitato No Forno elettrico Genova” contro l’ipotesi del piano presentato dal ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. Il progetto dovrebbe rappresentare un rilancio dell’impianto genovese che l’anno scorso ha prodotto 330 mila tonnellate di acciaio: il minimo storico. Ovvero, realizzare un forno elettrico all’interno dell’area ex-Ilva, un progetto che fa parte della strategia di rilancio industriale sostenuta da istituzioni e sindacati.
Così, mentre i cittadini e i comitati dai giardini Melis hanno sfilato lungo la via principale del quartiere per chiedere garanzie sulla salute al grido di «vogliamo vivere», gli operai dell’ex-Ilva con il sindacato FIOM e il “Comitato per il lavoro e un sano sviluppo” di Cornigliano si sono messi a volantinare ribadendo: «Senza lavoro c’è l’agitazione». È finita con un confronto acceso, e i cortei che si sono allontanati in direzioni opposte: la rappresentazione plastica di due diritti che non dovrebbero essere in contrapposizione. Salute e lavoro, ancora una volta.
Ma come funziona un forno elettrico? Se con l’altoforno vengono caricati minerale ferroso e carbone coke, e la temperatura all’interno può raggiungere i duemila gradi per ottenere ghisa (poi raffinata per ottenere acciaio liquido), nella produzione dell’acciaio attraverso il forno elettrico (Eaf) la materia prima è costituita da materiali ferrosi riciclati, fusi in un forno alla temperatura di circa 1.600 gradi. I vantaggi del forno elettrico rispetto all’altoforno sono rappresentati dalla dimensione (più contenuta), dalla possibilità di fermarlo più rapidamente, da minori emissioni e risparmio energetico. D’altro canto, ribatte il “Comitato No Forno Elettrico”, «il progetto prevede un forno elettrico ad arco da due milioni di tonnellate all’anno, un caso unico in Italia e in Europa. Gli Eaf estenti in Italia sono più piccoli (tra 300 mila e 1,2 milioni di tonnellate) e nessuno di simile portata è stato collocato a poche centinaia di metri dalle case o dalle scuole». Uno studio pubblicato nel 2024 «evidenzia che anche un Eaf di dimensioni minori produce fino a 600 chili di polveri al giorno, con particelle submicroniche e metalli pesanti, superando 3–15 volte i limiti di esposizione professionale».
Il piano per Genova
Lo stabilimento dell’ex Ilva di Genova si estende su un milione di metri quadrati tra il mare e il quartiere di Cornigliano. È il secondo più importante in Italia dopo quello di Taranto, ed è il principale punto di collegamento con gli altri impianti dell’azienda in Piemonte, come quello di Novi Ligure. A Genova, al momento, viene prodotta la banda stagnata, ovvero la latta per usi alimentari. Non a sufficienza, però: Genova ne produce centomila tonnellate all’anno, ma il Paese ne consuma 800 mila. A Genova si producono anche la banda cromata e quella zincata. Il forno elettrico del futuro, in ogni caso, dovrebbe servire non solo per la lavorazione dell’acciaio – che oggi viene spedito dallo stabilimento di Taranto – ma anche per la sua produzione. Con l’obiettivo di tutelare l’occupazione: a Cornigliano i lavoratori sono 1.200 e il piano prevede altri 700 posti di lavoro.
L’idea rientra nel più ampio progetto del governo per decarbonizzare l’ex-Ilva di Taranto (oggi Acciaierie d’Italia), sede principale dell’azienda e uno degli impianti siderurgici più grandi d’Europa, gestita dallo Stato in amministrazione straordinaria in seguito alla lunga crisi. Il piano prevede la costruzione di più forni elettrici anche a Taranto, per rendere più sostenibile l’impatto ambientale della produzione dell’acciaio. Ma i tempi e le modalità in cui questa transizione dovrebbe avvenire sono ancora nebulosi. «Genova ha detto sì, in modo unitario, alla possibilità di un forno elettrico all’acciaieria ex-Ilva di Cornigliano», ha scandito il ministro Adolfo Urso dopo la giornata genovese del 2 settembre, fitta di incontri con gli enti locali (sindaca Salis e presidente della Regione Marco Bucci in primis), i principali sindacati, le imprese e i comitati. Un progetto che secondo il ministro è necessario «affinché la produzione complessiva possa raggiungere otto milioni di tonnellate di acciaio green». I sindacati si sono schierati a favore: «Il messaggio che passa è che tutta la città, ovvero sindacati, istituzioni e parti sociali, è per il forno elettrico», ha sottolineato Stefano Bonazzi, segretario della FIOM CGIL di Genova. A favore anche Antonio Apa, coordinatore della UILM Liguria, che ha chiesto però risposte rispetto a «un punto di equilibrio tra governo e istituzioni locali tarantine».
La situazione, al momento, è in stallo. «Le condizioni della gara aggiornate prevedono la piena decarbonizzazione nel più breve tempo possibile, con l’obiettivo di fare dell’Italia il primo Paese in Europa a raggiungere questo traguardo nel settore siderurgico», ha precisato il ministro Urso. «E prevede la possibilità di realizzare, ma è una facoltà che forniamo all’impresa, anche un forno elettrico per l’area Nord». Il ministro ha spiegato che è compito degli attori industriali «presentare il piano, formulare l’offerta e, sulla base di questo, i commissari valuteranno. In primo luogo chi garantirà l’unità degli impianti, ma saranno prese in considerazione anche eventuali proposte alternative, con l’assegnazione dell’area Nord e dell’area Sud a soggetti diversi».
Ma le offerte pervenute appaiono deludenti: nessun colosso dell’acciaio, infatti, si è mostrato interessato all’intero gruppo. Gli unici sono due fondi americani – Bedrock e Flacks – affiancati da Steel Business Europe. Il fondo Flacks Group, insieme a Steel Business Europe, avrebbe presentato un’offerta simbolica di un euro, fornendo garanzie di salvaguardia per i posti di lavoro. Altre otto proposte (tra cui quelle di Marcegaglia ed Eusider) puntano solo ai singoli asset.
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L’accordo di programma: l’incompiuta
«Quando sono stato assunto io, nel 1989, c’erano 3.500 dipendenti. Solo a Genova. In tutta Italia oltre 40 mila. Oggi vedo per la siderurgia il rischio che finisca come l’auto elettrica: un treno perso, mentre in Europa si va in direzione opposta». Armando Palombo è uno storico operaio di Acciaierie d’Italia, membro della segreteria FIOM. Il giorno dello spegnimento dell’altoforno se lo ricorda bene. Lui era fermamente contrario. «Le procedure iniziarono il 28 luglio 2005, vennero completate ai primi di agosto, fu una scelta politica a cui noi abbiamo opposto le condizioni migliori possibili. È nato da lì il cosiddetto accordo di programma», ha raccontato a L’Unica. «Eravamo 2.740 lavoratori, oggi siamo 1.200. I 1.500 che avanzavano sono andati in pensione retribuiti. E nel periodo di buco, pur essendo in cassa integrazione, sono stati integrati in progetti di pubblica utilità. E infatti, in duecento ancora lavorano per la pubblica amministrazione nei musei, in ASTER, AMIU [l’Azienda per i servizi territoriali e l’Azienda multiservizi e d’igiene urbana di Genova, ndr], a stipendio pieno da operai».
Ma l’accordo di programma è rimasto in parte incompiuto. «Quello che non è stato rispettato è il piano industriale – ha spiegato Palombo – e dunque non c’è stato il raddoppio della produzione di latta, né la centrale elettrica. Riva ha compiuto tutte le bonifiche e investimenti per 700 mila euro, questo sì. Ma nei 300 mila metri quadri fuori, liberati, Società per Cornigliano avrebbe dovuto realizzare il parco urbano, il palazzetto dello sport. Invece, è una distesa di sterrato».
Le donne di Cornigliano
A Cornigliano, a loro è dedicato un giardino. Perché a combattere contro l’altoforno a difesa della salute furono le “donne di Cornigliano”, con Leila Maiocco in testa: e la loro lotta fu un tassello decisivo per lo spegnimento. Ma oggi, dal Centro civico del municipio – che sarà intitolato proprio a Maiocco – comincia un’altra battaglia: quella contro il forno elettrico, visto come l’ennesima servitù.
Patrizia Avagnina è una delle fondatrici del “Comitato difesa salute e ambiente” e detiene storia e memoria degli ultimi quarant’anni. «Ho organizzato l’assemblea perché la gente per strada mi chiedeva cosa succede, cosa facciamo?», ha spiegato a L’Unica. «Non vogliamo che quelle aree senza vincoli sanitari e ambientali vadano al migliore offerente, è un gioco brutto e al ribasso. Non ce lo meritiamo. Abbiamo già dato». Le “donne di Cornigliano” hanno scritto una lettera alla sindaca Silvia Salis: chiedendole di non dare l’assenso al progetto. «Senza la sottoscrizione del Comune – hanno detto – il ritorno infausto a una produzione siderurgica a caldo nelle aree di Cornigliano non è possibile». E ancora: «Chi vive qui, chi respira, chi si è ammalato o purtroppo non c’è più lo sa. Zona a elevato rischio ambientale e sanitario non è un’etichetta invitante per la nostra delegazione. L’invito che le rivolgiamo, quindi, è a prendersi un po’ di tempo».
Una delle richieste, ha rimarcato Avagnina, è che venga riattivato il monitoraggio della qualità dell’aria, «eliminato da oltre dieci anni». «Non ci sto a questa contrapposizione con i lavoratori, l’accordo di programma fu un punto di equilibrio tra le ragioni di ambiente e lavoro – ha aggiunto –. Collaborammo anche con Franco Sartori della CGIL. Oggi, invece, dopo il corteo e gli insulti che ci hanno rivolto alcuni operai della FIOM, con dolore ho restituito la tessera della CGIL. Perché chi ci insulta non è degno di portare quella maglia».
Questa puntata di L’Unica Genova termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.
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