Da Bra a Gaza: racconti dalla Flotilla e dal carcere israeliano

Da Bra a Gaza: racconti dalla Flotilla e dal carcere israeliano
Uno scorcio di due imbarcazioni della Flotilla

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La missione della Global Sumud Flotilla, l’iniziativa internazionale nata per rompere il blocco imposto a Gaza dall’esercito israeliano e portare aiuti umanitari, si è conclusa, ma il suo impatto è stato enorme, sia in termini di partecipazione che di mobilitazione della società civile. Più di cinquecento attivisti di 44 diverse nazionalità hanno preso parte alla spedizione, con 22 imbarcazioni provenienti dall’Italia e trenta da altri Paesi, segnando una delle iniziative di solidarietà più imponenti degli ultimi anni. Parallelamente, decine di piazze italiane hanno ospitato manifestazioni di sostegno. L’iniziativa ha coinvolto due attivisti di Bra: Abderrahmane “Ab” Amajou, presidente di ActionAid Italia, che a cinquanta miglia circa dalle coste palestinesi è stato arrestato (lui dice «rapito») e poi rilasciato dopo aver trascorso cinque notti in un carcere israeliano, e Linda Ansaldi, che invece non è riuscita a partire dalla Sicilia a causa di un guasto al motore dell’imbarcazione.

Lo sciopero della fame

Il racconto che Amajou ha offerto a L’Unica comincia dal giorno del suo ingresso nel penitenziario israeliano di Ketziot: «Il giudice è venuto a trovarmi per chiedermi di firmare il foglio di via per l’espulsione immediata, un documento in cui avrei dovuto dichiarare di aver tentato di entrare illegalmente in Israele. Per me la firma non era soltanto un gesto formale, ma anche politico: significava riconoscere una falsità e, di fatto, legittimare la prevaricazione, l’impunità e la libertà di Israele di agire come vuole».

«Le autorità israeliane hanno raccontato al mondo intero che la flotta fosse finanziata da Hamas, una menzogna assoluta, sostenendo di possedere le prove; in realtà si trattava di pura propaganda. Fallita questa strategia, hanno cercato di convincerci a lasciare Israele volontariamente». Amajou ha protestato, rifiutando di firmare il documento e di alimentarsi, dando inizio a uno sciopero della fame che l’ha portato a perdere sei chili.

È rimasto in carcere cinque notti prima che il giudice disponesse la sua espulsione: «Ho subìto pressioni psicologiche e maltrattamenti. Le guardie puntavano le armi contro di noi più volte al giorno, urlandoci contro in ebraico e in arabo. Io capisco l’arabo, ma ho scelto di non farlo vedere per non complicare ulteriormente la situazione. Ciò che più mi ha segnato, però, è stato sentire i caccia sorvolare la zona diretti verso Gaza: sapevamo che mentre eravamo rinchiusi, le bombe israeliane continuavano a colpire i civili palestinesi a pochi chilometri da noi, rendendo ancora più drammaticamente evidente il genocidio in corso».

La Flotilla, secondo le leggi internazionali, aveva il diritto di raggiungere il territorio palestinese per consegnare cibo. Il blocco navale imposto da Israele su Gaza è stato più volte dichiarato illegale da organismi internazionali, anche se la Commissione delle Nazioni Unite sull’assalto alla nave “Mavi Marmara” – una missione del 2010 che aveva gli stessi obiettivi della Flotilla, ma che era terminata con l’uccisione di dieci attivisti – lo aveva riconosciuto come una misura di sicurezza. In qualunque caso, negli ultimi anni altri organismi delle Nazioni Unite hanno sostenuto che le restrizioni imposte da Israele agli aiuti violano il diritto internazionale umanitario. Proprio per questo, Amajou si è rifiutato di firmare il documento proposto per il rilascio immediato: «Firmare quel documento avrebbe significato riconoscere come proprietà israeliana quel tratto marittimo, cosa che non potevo accettare. E poi, siamo stati arrestati in acque internazionali: tutto ciò era palesemente illegale».

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Neutralizzare telecamere e telefoni satellitari

L’imbarcazione su cui viaggiava l’attivista, la Paola 1, è stata fermata dall’esercito israeliano a circa cinquanta miglia dalla costa di Gaza. I militari dell’IDF, l’esercito israeliano, hanno prima tamponato la barca e, in pochi secondi, sono saliti a bordo con i fucili spianati. «Ci siamo fatti trovare già con le mani alzate, ma continuavo a vedere i puntatori laser rossi scivolare sui volti dei miei compagni di viaggio. Ci urlavano di non muoverci, sottolineando più volte: “Se qualcuno si muove, spariamo”», ha raccontato Amajou. «La prima azione da parte loro è stata quella di neutralizzare ogni forma di registrazione, rompendo la telecamera a bordo, disattivando Starlink [la connessione satellitare, ndr], tagliando qualsiasi contatto con l’esterno e assicurandosi di non essere ripresi. Noi avevamo già gettato i cellulari in mare preventivamente per proteggere i nostri contatti, ma i militari hanno cercato altre telecamere, dimostrando che il loro vero timore era la comunicazione: i media sono ormai considerati un nemico da Israele, come dimostrano gli oltre 260 giornalisti uccisi».

Per le successive sedici ore, i militari sono rimasti a bordo della Paola 1, scortando l’imbarcazione verso il porto di Ashdod, dove tutti sarebbero stati arrestati. Durante la traversata, molti soldati israeliani hanno dovuto sdraiarsi a terra per il mal di mare; alcuni si sono addormentati lasciando temporaneamente le armi incustodite. «Se fossimo stati davvero un movimento violento, come sosteneva la propaganda israeliana, avremmo potuto approfittarne. Invece siamo un gruppo pacifico, determinato a fermare il genocidio», ha puntualizzato.

Il viaggio è stato impegnativo «e non una vacanza come hanno sostenuto i detrattori». Le barche, ha raccontato, «erano piccole e il mare agitato: in una sola giornata le onde hanno superato i tre metri. Spesso saltavamo i pasti, impossibilitati a cucinare, accontentandoci di una barretta energetica. Ogni movimento della barca era violento, come un terremoto continuo, e bastava andare all’interno per stare subito male: per questo la maggior parte del tempo la trascorrevamo sul ponte».

Il rientro in Italia

Arrivati ad Ashdod, gli attivisti sono stati caricati su camionette e portati a un penitenziario a circa tre ore di distanza. «Le celle erano come frigoriferi: sedute di metallo, grate, temperature bassissime. Ci hanno tolto i vestiti e molti si sono ammalati. Hanno sfruttato ogni mezzo per farci soffrire: sottrazione di medicinali, furgoni gelati, lasciarci al freddo e poi accendere il riscaldamento a dismisura. Qualunque atteggiamento poteva diventare uno strumento di tortura, prima di tutto psicologica». Poi in carcere sono stati visitati dal ministro della Sicurezza nazionale, l’estremista di destra Itamar Ben-Gvir, che li ha insultati e ha dichiarato che sarebbero stati trattati come terroristi, vestendoli con la tuta grigia riservata a chi, appunto, è accusato di terrorismo.

Sei giorni dopo, Amajou è tornato in Italia indossando la stessa tuta. Il viaggio è iniziato dall’aeroporto di Eilat-Ramon, nel deserto della valle del Timna, «scelto appositamente per tenere lontani i giornalisti», ha detto Amajou. A bordo di un charter greco è arrivato ad Atene, dove funzionari dell’ambasciata italiana attendevano lui e altri quattro attivisti con i biglietti per il volo verso l’Italia, acquistati dai familiari ma consegnati dall’ambasciata per accelerare l’imbarco. Questo perché «il volo ad Atene ci aspettava da oltre un’ora, ma invece di trovare persone arrabbiate, abbiamo ricevuto un’accoglienza calorosa, tra applausi e domande. Ho passato tutto il viaggio a parlare con i vicini di posto». Arrivato a Milano, Amajou è stato accolto dai familiari e dagli amici: un pullman da 52 posti pieno di persone e regali, per lui e per gli altri attivisti rientrati insieme.

La storia di Linda e il futuro del movimento

Chi su quella barca c’era solo con il cuore è l’attivista braidese Linda Ansaldi, impossibilitata a partire a causa di un guasto al motore dell’imbarcazione che avrebbe dovuto portarla a Gaza, partita da Genova ma bloccata in Sicilia. Ansaldi sa bene che in missioni come questa gli imprevisti possono sempre capitare: a giugno si era già unita alla Global march to Gaza, l’iniziativa che intendeva forzare l’isolamento di Gaza via terra, con l’obiettivo di raggiungere a piedi il valico di Rafah dalla penisola del Sinai e fare pressione per aprire i valichi bloccati da Israele e permettere l’ingresso degli aiuti umanitari. Per un momento sembrava che persino il presidente egiziano Al-Sisi fosse pronto a garantire protezione alla marcia, che sarebbe partita da Al-Arish, in Egitto. Ma negli stessi giorni Israele attaccò l’Iran, complicando ulteriormente la situazione. La marcia non partì e molti attivisti, tra cui Ansaldi – trattenuta all’andata in aeroporto insieme ad altri compagni di viaggio, con i passaporti sequestrati per alcune ore – furono costretti a rientrare.

«Quell’occasione mancata non ha scalfito la nostra determinazione», ha detto Linda Ansaldi a L’Unica. «Anzi, ci ha permesso di incontrarci di persona e di iniziare a progettare la missione successiva», la missione destinata a diventare la Global Sumud Flotilla, per la quale lei si occupava di comunicazione e relazioni pubbliche per il coordinamento nazionale. «Il mio compito era collegare giornalisti, attori, cantanti e altri sostenitori alla missione, diffondendo notizie e aggiornamenti. Tra le attività principali c’era l’animazione del canale Instagram della missione, cresciuto da poche decine di migliaia a oltre 500 mila follower, e gestire la diffusione dei contenuti dei personaggi pubblici per garantire sostegno e visibilità», ha spiegato. «Ogni informazione doveva essere attentamente controllata, perché temevamo infiltrazioni e intercettazioni, inclusa l’osservazione del Mossad, il servizio segreto israeliano». Secondo l’attivista, una delle prove delle intercettazioni sarebbe il «sabotaggio della Handala, la barca partita da Gallipoli, che pur essendo stata costantemente presidiata dagli attivisti è stata sabotata – probabilmente da qualche infiltrato – con acido nell’acqua e manomissioni alle eliche».

Per organizzare una missione come la Global Sumud Flotilla, Ansaldi e gli altri volontari hanno lavorato fino a venti ore al giorno. In appena due mesi hanno dato vita alla più grande missione internazionale via mare organizzata dalla società civile nella storia. «Non sappiamo ancora quali saranno i prossimi progetti del Global Movement to Gaza, di cui la Flotilla è stata una singola, seppur grande, iniziativa. Il movimento continuerà a operare, consapevole che il percorso è ancora lungo. Gaza non è in pace – ha concluso Ansaldi – e il lavoro da fare è ancora enorme. Ci stiamo riorganizzando, ma l’esperienza della missione ha dimostrato che, se ben coordinati, anche piccoli gruppi possono portare avanti iniziative internazionali complesse, con grande impatto e visibilità».

Questa puntata di L’Unica Cuneo termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.

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