Dalla Macedonia a Roddino: un graphic novel per raccontare com’è cambiata l’immigrazione

Dalla Macedonia a Roddino: un graphic novel per raccontare com’è cambiata l’immigrazione
Immagine tratta dal graphic novel “C’era una volta l’Est”

Alessandria si racconta

Il 18 novembre si terrà il primo evento dal vivo de L’Unica: una serata dedicata alle storie della città di Alessandria, con il responsabile editoriale Guido Tiberga in dialogo con il professore di Storia del pensiero politico Giorgio Barberis.

📍 Ore 18 – LaRisto, Ristorazione Sociale (Viale Milite Ignoto 1/a, Alessandria)
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C’è chi scappa dalla Macedonia dopo la guerra in Jugoslavia e chi invece ci torna per rivedere la madre malata: Milan e Robert, padre e figlio, sono due facce di una stessa medaglia, quella dell’emigrazione e dell’immigrazione raccontate in “C’era una volta l’Est” (Tunuè, 2025). Si tratta del primo graphic novel di Boban Pesov, artista macedone residente a Roddino, in provincia di Cuneo, che dopo il diploma al Liceo artistico Pinot Gallizio di Alba e la laurea in architettura al Politecnico di Torino ha intrapreso la carriera di fumettista e di content creator su YouTube. Dal 2008 gestisce con la famiglia la cooperativa “Arco del lavoratore”, attiva nel settore agricolo e specializzata nella viticoltura nelle zone del Barolo e del Barbaresco.

Nel suo esordio ha deciso di intrecciare due storie parallele, ambientate in epoche diverse ma unite dallo stesso filo conduttore: c’è Robert, giovane ex rifugiato, che torna nel Paese d’origine per assistere la madre ricoverata in ospedale tra silenzi, ansie e ricordi, e Milan, il padre che trent’anni prima percorre la rotta balcanica per trovare fortuna nelle Langhe dopo mille peripezie e problemi burocratici. Sullo sfondo vediamo la dissoluzione di uno Stato, che portò tensioni e conflitti tra nazioni incapaci di coabitare pacificamente, resa con efficacia attraverso i contrasti tra l’architettura brutalista e i villaggi rurali nei flashback dei protagonisti.

La scelta di trattare un argomento autobiografico, dopo alcune pubblicazioni più ironiche come “NaziVegan Heidi” (Magic Press) e “Call me Boban” (Tora) – la prima una rivisitazione moderna del cartone svizzero, il secondo una raccolta di strisce apparse sui social – nasce da una volontà precisa. «Volevo tentare un tema che mi fosse abbastanza familiare e che quindi potessi in qualche modo giostrare più facilmente», ha raccontato Pesov a L’Unica. «Inoltre, il legame con la mia esperienza rendeva più naturale il racconto». Esordendo con un graphic novel «impegnativo, che mi avrebbe portato via quasi un paio d’anni di lavoro, volevo puntare su qualcosa che mi fosse vicino».

Un dialogo intergenerazionale

La presenza di due personaggi con età diverse permette all’autore di mettere in scena un dialogo, a volte uno scontro, tra generazioni che hanno vissuto in modo diverso la partenza dal Paese d’origine. Il vissuto di Robert è quello più vicino al passato di Boban, che all’età di sette anni si trasferì alla Bussia di Monforte d’Alba per stabilirsi poi a Roddino. «Io tecnicamente non sono un immigrato di seconda generazione perché non sono nato in Italia, però mi considero tale perché ho pochi ricordi della Macedonia, mentre ricordo tutte le difficoltà che abbiamo avuto nei primi momenti, tra il ’99 e l’inizio degli anni Duemila. Per esempio la tensione perenne del ricongiungimento familiare: essendo minorenni io e mio fratello potevamo venire in Italia per un periodo con il permesso di soggiorno di mio padre, ma non era lo stesso per mia madre».

La burocrazia è uno degli impedimenti più grandi per la famiglia di Robert, come si vede nelle tavole ambientate fuori dalla Questura di Torino, proprio come per quella di Boban: «Bisognava andare due o tre volte alla settimana a cercare informazioni, a capire come risolvere la situazione di mia madre, che poteva da un momento all’altro essere mandata via. A un certo punto è dovuta andarsene perché le era scaduto il visto temporaneo e mio padre si è ritrovato con due figli che dovevano andare a scuola, mentre lui è rimasto da solo a lavorare per sei mesi. Mia madre quindi doveva risolvere il problema tra ambasciate e spese: non eravamo nella situazione economica di poterci permettere di impiegare così tanto tempo per risolvere questa situazione».

Immagine tratta dal graphic novel “C’era una volta l’Est”

La rotta balcanica: ieri e oggi

Milan, con gli amici Goran e Paule, attraversa l’Europa dell’Est per raggiungere l’Italia, lasciando a casa la moglie Vera e i piccoli Robert e Dejan. Freddo, dogane, guardie corrotte sono solo alcune delle insidie che incontra lungo il tragitto all’indomani della fine della Jugoslavia.

Pesov ha raccontato a L’Unica come ha deciso di trattare quel viaggio. «Non sono un saggista, non affronto i minimi dettagli, ma lascio che la Storia con la “S” maiuscola resti sullo sfondo, quindi il fatto di vivere in un paesino sperduto nei Balcani che appartiene a un Paese che si è reso indipendente da poco», ha raccontato. «Emerge subito il concetto di clandestinità, la fuga dalle proprie terre per cercare un futuro migliore. Diciamo che il lato politico, legato alla guerra, lo si sente nell’aria, ed è presente anche il cambiamento della Jugoslavia in trent’anni attraverso il decadimento dell’architettura».

Anche ai nostri giorni la rotta balcanica, il percorso che dalla Turchia e dalla Grecia giunge fino ai confini orientali dell’Unione europea, continua a essere frequentata. Ma secondo i dati Frontex – l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera – relativi al 2024 gli attraversamenti irregolari delle frontiere sono in forte calo (21.520, cioè il 78 per cento in meno rispetto all’anno precedente) e il motivo è semplice: «Oggi la rotta dai Balcani ha preso una brutta nomea, fra i migranti sta diventando il piano B rispetto ad attraversare il Mediterraneo», ha spiegato Pesov. «Parlando con i ragazzi che sono da noi, molti di loro hanno preferito affrontare il mare: ironicamente, anzi tragicamente, lo chiamano “the game” perché è come un gioco a livelli».

Molti Stati rimangono ostili, non tutti. «Ci sono alcuni spiragli di speranza, come alcune zone prima del confine croato, perché tantissimi bosniaci di tradizione musulmana danno aiuto e ospitalità sia per la vicinanza religiosa, sia per il fatto di aver subìto percosse e violenza durante la guerra». Altri Paesi invece non sono amichevoli: «L’Ungheria è inaccessibile: la cattiveria che mettono contro i migranti è nota già da anni. Paesi come la Serbia o la Croazia non usano i guanti di velluto».

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L’Ue non ha creato strategie strutturali di gestione dei flussi migratori dai Balcani, perciò l’unica soluzione adottata è quella dei respingimenti, spesso violenti. «Un anno fa, in pieno inverno, un gruppo di migranti è stato denudato e spogliato di ogni bene, anche del telefono, dalla Polizia e da abitanti serbi. Poi sono stati rimandati al confine macedone a notte fonda: qui non c’è solo cattiveria, ma anche sadismo», ha commentato Pesov.

La cooperativa: un aiuto concreto

Per offrire un futuro migliore a chi arriva nelle Langhe, Boban e la sua famiglia hanno fondato una cooperativa a Roddino. «Io, mio padre e mio fratello siamo partiti nel 2008 con poche persone, prevalentemente nostri connazionali  ̶  qualcuno addirittura dal nostro stesso paesino, Trsino  ̶ , e siamo cresciuti fino ad essere tra i più rinomati del settore». In più di quindici anni il mercato è cambiato: i braccianti non arrivano più dall’Est Europa. «Abbiamo assistito a un’evoluzione generazionale e a poco a poco è cambiata anche le nazionalità di chi arrivava. Dopo il COVID abbiamo visto sempre meno macedoni venire a lavorare nel settore agricolo e sempre più ragazzi dal Pakistan, dal Bangladesh e dal Nord Africa».

Questo ha comportato anche nuovi sforzi: «Abbiamo dovuto assecondare questo periodo di cambiamento impegnandoci e investendo molto nel poter dare la possibilità di lavorare a tantissimi richiedenti asilo, quindi creargli un sistema di formazione e di integrazione, tutto fatto al nostro interno, perché di aiuto ne abbiamo sempre ricevuto poco, anche perché spesso il sistema delle cooperative viene percepito come il male assoluto».

Grazie all’aiuto di associazioni come Confcooperative e di alcuni Comuni vicini, l’“Arco del lavoratore” è riuscito a trovare la giusta dimensione per tante persone migranti. «Noi adesso seguiamo trenta ragazzi: abbiamo dato loro una casa e alcuni, avendo raggiunto una stabilità economica, si sono ritrovati ad avere un permesso di soggiorno lavorativo, che è valido per 2 o 3 anni. Insomma, si stanno sistemando». Quest’operazione ha pagato anche dal lato imprenditoriale: «Se non avessimo investito e ci fossimo ritrovati con trenta persone in meno, avremmo dovuto chiudere la ditta. Oppure non avremmo soddisfatto le richieste dei nostri clienti storici. Perciò abbiamo favorito un processo di integrazione basato sulla trasparenza con le istituzioni e le aziende».

Il caporalato nelle Langhe

A luglio 2024 la diffusione di immagini in cui alcuni braccianti stranieri venivano picchiati con un bastone di ferro (da cui ha preso il nome l’operazione Iron rod con arresto e condanna per tre “caporali”) aveva acceso i riflettori sul caporalato, un fenomeno fino a quel momento taciuto nelle Langhe patrimonio Unesco. Sono emerse storie pesanti di sfruttamento: lavoro in vigna per 4 o 5 euro l’ora, con turni ininterrotti fino a 15 ore di seguito, è quanto accertato dalle indagini della squadra mobile della Questura di Cuneo, coordinata nelle indagini dalla Procura di Asti. In seguito, la morte per asfissia dei giovani migranti Issa Loum e Mamadou Saliou Diallo – provenienti dal Senegal e dalla Guinea   ̶ in un capannone abbandonato in strada Gamba di Bosco ad Alba ha mostrato anche la forte emergenza abitativa per molti ragazzi nelle terre del Barolo.

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In controtendenza, esistono casi virtuosi come l’Accademia della Vigna, l’iniziativa dell’impresa sociale WECO che da qualche anno, in collaborazione con il Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe Dogliani, cerca di creare una filiera formativa per giovani immigrati. Insegnare loro un mestiere e inserirli nelle aziende, grazie a una rete diffusa di partner nel mondo del vino, è un’ottima via per soddisfare la crescente necessità di personale specializzato e per garantire un futuro a centinaia di persone.

Per Boban la soluzione sta nel dare più credito a chi si impegna per tenere standard qualitativi alti. I casi di sfruttamento scoperti nel Cuneese, ha detto, «fanno discutere e arrabbiare tanti di noi che operano nel settore: non è giusto generalizzare, senza valorizzare le numerose realtà positive. La caccia alle streghe non basta: vanno benissimo i controlli, ma bisognerebbe portare in alto chi lavora bene, proprio perché a un certo punto una realtà diventa tossica non solo per i caporali, ma anche a causa dei produttori che vogliono spendere poco».

Questa puntata di L’Unica Cuneo termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.

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