La lana delle pecore è un problema per gli allevatori

La lana delle pecore è un problema per gli allevatori
Foto: Matteo Ternavasio

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Basta guardare dietro alle porte di un allevamento per vedere la contraddizione: migliaia di pecore pascolano su praterie fragili eppure, quando viene il momento della tosatura, il vello non trova mercato. Le lane prodotte nell’arco alpino e negli Appennini – in particolare nell’area delle Alpi Marittime che collega l’Italia e la Francia – sono abbondanti, ma spesso non soddisfano gli standard di finezza richiesti dall’abbigliamento di massa. Intanto fibre sintetiche, economie di scala e catene di trasformazione estremamente efficienti hanno svuotato gli scaffali di spazio per le lane locali. Si stima che nei territori alpini tra Italia e Francia si producano più di cinquemila tonnellate di lana, eppure solo una quota limitata trova applicazioni remunerative: gran parte resta confinata all’artigianato locale o, peggio, diventa un problema da smaltire.

La lana “sucida” – così è chiamata quando è appena tosata – può contenere tracce di terra, sporco, residui vegetali e agenti microbici, contaminazioni che la rendono un sottoprodotto soggetto a norme igienico-sanitarie severe. La normativa europea, recepita dalla legge italiana, inserisce la lana e i peli tra i sottoprodotti animali a basso rischio sanitario, ossia la categoria 3, e impone specifiche modalità di raccolta, etichettatura e smaltimento. Tradotto in pratica: per l’allevatore lo smaltimento è un costo tangibile, a volte insostenibile e ricorrente, con tutta la burocrazia e la logistica che ne derivano. Chi alleva spesso racconta di sacchi di lana lasciati a marcire o accantonati nei cortili perché la filiera della lana è ormai diventata una nicchia per le razze ovine con il vello più sottile.

Perché la lana cuneese non è redditizia

I tentativi di rendere remunerativa la lana delle pecore cuneesi ci sono stati, ma senza successo. «In passato c’è stata una volta in cui, con altri della zona abbiamo raccolto la lana e l’abbiamo spedita a Biella, dove ci sono i lanifici. Ma non ci siamo neppure pagati i costi del trasporto», ha raccontato a L’Unica un allevatore di Murazzano che chiede di restare anonimo.

A Biella i lanifici selezionano la materia prima in base alla qualità: la prima scelta serve per filati e feltro, la seconda va alla bioedilizia, e più recentemente c’è anche chi la trasforma in materiale per concime. Ma la pecora dell’area alpina e appenninica è tipicamente da latte, la sua lana non è pregiata: «Dopo aver partorito l’agnello, le pecore iniziano a nutrirlo e l’energia che producono va nel latte, non nella lana, e il loro pelo diventa meno lucido. Di conseguenza, la nostra lana non è adatta a tutti gli usi: si presta soprattutto per i tappeti», ha aggiunto l’allevatore. Una produzione economicamente poco remunerativa.

Così nel mercato industriale del tessile finisce la lana che arriva già filata dall’Europa dell’Est o dalla Nuova Zelanda, proveniente da razze da carne che producono poco latte e quindi forniscono lane più adatte a filati morbidi per maglioni e sciarpe.

«Alla fine, noi siamo tornati a usare la lana “in proprio”, la utilizziamo per pacciamare i meli [la pacciamatura è un procedimento che consiste nel ricoprire il terreno con uno strato di materiale organico, ndr], perché la lana protegge le piante, trattiene umidità e nutre il terreno destinato al nostro pascolo», ha raccontato l’allevatore.

La lana a “Cheese”, l’evento di Slow Food a Bra

La pastorizia, non solo nel Cuneese, è da sempre un presidio del paesaggio: greggi che movimentano erba e cespugli, che tengono in equilibrio il mosaico di prati e boschi, che modulano la biodiversità dei foraggi e contrastano l’erosione dei suoli. Quando un territorio perde i suoi pastori, perde anche una forma di cura che difficilmente si riconquista. E la lana è il segno materiale di quella cura: se la si ricollega a filiere corte e a usi innovativi, la materia può riconvertirsi da costo a opportunità, generando reddito e senso di comunità.

Su questa idea poggia il progetto “Marlaine”, finanziato dal programma di cooperazione Interreg Italia-Francia Marittimo 2021-2027 e lanciato ufficialmente il 27 giugno 2024: una rete – di cui si parla in questi giorni a “Cheese”, l’evento di Slow Food che ogni due anni porta a Bra produttori e allevatori di tutto il mondo – dove si uniscono centri di ricerca, università, imprese tessili e associazioni locali per sperimentare la bioeconomia circolare applicata alla lana.

“Marlaine” non è solo studio: è un piano d’azione che prevede scenari di economia circolare, prototipi e azioni pilota – dalla ricerca di applicazioni innovative per l’agrotessile alla bioedilizia – con l’obiettivo di mettere in rete chi produce, trasforma e compra. L’obiettivo è semplice nella sua ambizione: far emergere il valore ambientale, culturale ed economico della lana locale, costruendo percorsi praticabili per chi alleva e per chi vuole lavorare la fibra vicino ai pascoli.

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L’esempio che arriva dalla Sardegna

In altre regioni ci sono già esempi di imprese che cercano di dare valore al vello grezzo. Uno di questi è rappresentato dall’azienda Mariantonia Urru di Samugheo (Oristano), nota per i suoi tappeti ma che oggi sta trasformando la lana in una risorsa versatile e preziosa. «Il nostro lavoro è creare spazi di mercato per questo prodotto, togliendo al contempo ai pastori il problema dello smaltimento e riconoscendo loro una redditività», ha detto a Slow Food Giuseppe Demelas, responsabile commerciale dell’azienda fondata nel 1981 da sua madre, in questi giorni a Bra per “Cheese”.

Per Demelas, la qualità inizia già dalla gestione del gregge. La pre-tosatura è fondamentale: «Meglio viene trattato l’animale, evitando ad esempio che sosti in ricoveri sporchi o che pascoli in zone dove rischia di imbattersi in spine, migliore sarà la qualità della lana». E serve anche un sostegno pubblico, ad esempio attraverso premialità legate al benessere animale e alla tosatura.

La lana, ha spiegato ancora Demelas, è un materiale dalle proprietà straordinarie: isolante termo-acustico, fonoassorbente e ignifugo, capace di assorbire l’umidità e con una resa cromatica superiore a cotone e altre fibre. Gli usi possibili sono molteplici. Oltre ai tappeti, le lane più grosse si prestano per tessuti d’arredo, sedute e pannelli fonoassorbenti, mentre quelle più pregiate trovano spazio nel mondo della moda, dai capispalla agli accessori, e presto anche nell’automotive, con prototipi di sedute imbottite e rivestite. «Di spazio, nel mercato, ce n’è: bisogna lavorare, fare progetti a lungo termine. Poi le cose succedono».

Il nodo più urgente resta però il lavaggio. Dopo la tosatura, la lana sucida va pulita prima di poter essere trasformata, ma in Italia i centri dedicati hanno chiuso uno dopo l’altro. «L’ultima volta ci siamo dovuti rivolgere all’estero. Ora vogliamo capire se sia possibile riattivare un centro di lavaggio in conto terzi: stiamo ragionando per capire le possibilità», ha concluso Demelas.

Gli Stati generali della lana

Non sono progetti che si possono costruire a tavolino: serve la pratica quotidiana degli allevatori, serve il tempo tecnicamente lungo della selezione delle razze, serve che un artigiano trovi costanza nella materia prima, ma serve anche che il consumatore cominci a riconoscere il valore aggiunto del prodotto che viene dal pascolo, dalla pecora. È un lavoro culturale oltre che economico: parlare di lana significa restituire dignità a mestieri e saperi che tengono insieme i territori.

Per dare corpo a questo insieme di domande e proposte, “Cheese” ospita un momento che vuole essere segnale politico e pratico: una giornata di confronto che ricostruisce filiere e intreccia esperienze di ricerca, impresa e artigianato. Gli Stati generali della lana, organizzati nell’ambito del progetto “Marlaine”, sono pensati per mettere attorno allo stesso tavolo allevatori – tra cui Demelas –, trasformatori, progettisti, ricercatori e rappresentanti del mondo del tessile e della bioedilizia.

A chi vive e lavora in provincia di Cuneo questo discorso tocca luoghi e volti concreti: i pascoli delle valli, le stalle con le vecchie attrezzature, i sentieri dove le pecore riconoscono la guida del pastore. È qui che la lana può ritrovare uno spazio di praticabilità. Se la comunità locale saprà cogliere le opportunità – sostenendo piccoli impianti di lavaggio, promuovendo la formazione e costruendo relazioni stabili con designer e piccole imprese manifatturiere – si potrà costruire una filiera che restituisca reddito, identità e cura del paesaggio.

Questa puntata di L’Unica Cuneo termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.

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