Correre le più grandi maratone per far capire che il diabete non è un limite

Correre le più grandi maratone per far capire che il diabete non è un limite
In foto Simone Carniglia

L’Unica è una newsletter gratuita che ogni settimana ti manda via mail una storia dal tuo territorio.

Per riceverla, clicca qui

Corre forte. Ma soprattutto corre per cambiare le cose, per sé e per gli altri. Simone Carniglia è uno degli oltre 8 mila piemontesi ai quali è stato diagnosticato il diabete di tipo 1, la forma cronica della malattia che impedisce al pancreas di produrre insulina. Simone è anche uno degli 870 maratoneti italiani arrivati al traguardo in tutte e sei le major, le gare sui canonici 42 chilometri più importanti e qualificate del mondo: Tokyo, Boston, Londra, Berlino, Chicago e New York. Non solo, da quest’anno le major sono diventate sette, con l’aggiunta della prova di Sydney. Il 31 agosto scorso, Simone era lì, dall’altra parte del mondo, a sfidare i propri limiti e quelli dell’organizzazione sportiva internazionale. E il bello è che sta vincendo. «Non corro per essere primo. Corro perché voglio dimostrare che si può fare», ha detto a L’Unica.

Carniglia ha 38 anni e vive a Tortona. Non è un runner professionista: ingegnere, lavora in una multinazionale nel settore dell’energia e ha una vita piena. Soprattutto, deve fare i conti con la malattia. Da quando ha ricevuto la diagnosi, ha trasformato il proprio rapporto con il corpo e con lo sport in una forma di riscatto. Ha corso la sua prima maratona a Milano nel 2019: a oggi ne ha portate a termine altre sedici. Nel 2026 – dopo essere entrato nel Guinness dei primati come primo diabetico di tipo 1 ad aver completato il circuito delle major, con una media inferiore a 2 ore e 45 minuti – punta a ripetersi per la seconda volta. Ma la sua impresa non si ferma al cronometro.

Una malattia di cui bisogna parlare di più

Simone è diventato il promotore di cambiamenti strutturali in alcune delle maratone più famose al mondo, per garantire diritti e servizi agli atleti con diabete o patologie croniche. Piccole modifiche all’organizzazione che fanno una differenza enorme per chi corre con un bagaglio invisibile come una malattia.

Come ha scoperto la passione per la corsa? «Ho cominciato a correre relativamente tardi, a 31 anni avanzati. Prima facevo sport di squadra, poi sono stato fermo per molto tempo perché avevo avuto un’operazione per una cisti pilonidale, poi molte distorsioni giocando a pallamano. Dopo un lungo periodo di stop sono arrivato a pesare più di 130 chili e ho cominciato prima a camminare, a fare trekking. Durante un viaggio all’estero ho stretto amicizia con dei ragazzi e uno di loro mi butta lì una proposta: “Ma perché non ci ritroviamo a Milano a correre la Deejay Ten [la storica corsa non competitiva organizzata da Radio Deejay, ndr]”», ha raccontato. «Era il 2018: sono arrivato a casa, ho corso 10 chilometri da solo. Allora sono andato, mi sono innamorato della corsa e da lì è cominciato. Avevo in mente l’immagine di Stefano Baldini che vince le Olimpiadi di Atene e mi sono detto: “Devo correre una maratona”. Sei mesi dopo l’ho fatto». 

Il diabete lo accompagna dall’età dell’adolescenza: «Avevo dodici anni, l’anniversario è stato l’11 settembre, una data facile da ricordare. Ma il mio è del 1999, due anni prima di quello che conoscono tutti. Ormai sono passati ventisei anni». Un problema di cui si deve parlare: «È una malattia molto sottostimata, moltissimo. Io mi sono esposto sui social proprio perché mi sono reso conto che da una parte, chi ce l’ha tende a limitarsi nello sport, nei viaggi, in tutto e ha paura di vivere la propria vita; dall’altra, in molti la sottovalutano, la conoscono poco».

Carniglia ha raccontato che spesso, quando si parla di diabete, lo si confonde con il tipo due, il più diffuso, che però «è una malattia totalmente diversa, una malattia che – per semplificare – è indotta da una cattiva alimentazione, da poca attività fisica. E quindi spesso e volentieri si dice, “vabbè, hai mangiato male, hai fatto poco, ti sei preso il diabete”. In realtà la malattia di tipo uno è una malattia autoimmune che può venire a qualsiasi età e colpisce le cellule del pancreas che producono insulina. È come se un virus arrivasse nel nostro corpo. Il sistema immunitario vede queste cellule come un virus e le distrugge, così rimaniamo senza insulina. E senza insulina si muore, la dobbiamo introdurre dall’esterno».

Se questa newsletter ti è stata inoltrata, puoi iscriverti cliccando qui:

📨 Iscriviti

Cambiare le regole per aiutare gli atleti diabetici

Nel 2023, durante un incontro con il presidente della New York Road Runnersla società che organizza la maratona più famosa del mondo – Simone fece notare un dettaglio fondamentale: nelle gare come quella di New York dove la partenza e l’arrivo non sono nello stesso posto, gli atleti sono costretti a lasciare il proprio bagaglio due giorni prima nella zona traguardo. Chi ha bisogno di dispositivi medici non può più accedervi fino al temine della gara: per chi ha il diabete, questo significa correre senza strumenti, o doverli buttare prima della partenza. «Fino all’anno scorso mi portavo una macchinetta del sangue vecchia, una penna di insulina mezza vuota. E poi le buttavo. Era il danno minore che potessi fare».

Dopo aver illustrato la situazione, a Carniglia è stata proposta una prova: iscriversi come atleta con disabilità e testare un nuovo servizio. Il risultato? Un cambiamento che rivelerà conseguenze permanenti: oggi tutti gli atleti diabetici possono iscriversi come AWD (Athletes with disabilities) e accedere a servizi personalizzati.

L’introduzione del servizio ha permesso a Simone di portare i dispositivi con sé fino all’ultimo minuto, consegnarli in un’area dedicata, e ritrovarli all’arrivo. «Per la prima volta ho corso senza dovermi limitare. Ho potuto usare il mio smartphone con sensore glicemico, la mia insulina migliore, e non ho dovuto buttare nulla. È stato il massimo della performance e della sicurezza». Il modello newyorkese si sarebbe poi ripetuto a migliaia di chilometri di distanza, in Australia.

Il 31 agosto Simone ha corso la maratona di Sydney alla sua prima edizione come settima major. Anche qui aveva contattato il presidente dell’organizzazione, raccontandogli la sua esperienza a New York. «Mi ha detto: è il nostro primo anno come major, non possiamo fare tutto, ma iniziamo da quello che sembra più importante». È così è nato il Medical device concierge program, che prevede una zona dedicata dove lasciare dispositivi medici alla partenza, con trasporto tracciato fino al traguardo. Il servizio viene ufficializzato per tutti, e già dal primo anno diversi atleti possono beneficiarne. A differenza di New York, l’informazione parte direttamente dall’organizzazione: chi dichiara condizioni mediche riceve una mail con le istruzioni. Secondo Carniglia, è «un approccio ancora più inclusivo».

Piccoli problemi a cui nessuno pensa

Per chi ha il diabete, c’è un altro problema spesso sottovalutato: l’accesso ai bagni. Le persone con diabete devono bere molto, e capita che debbano andare in bagno spesso. E per chi è in terapia insulinica, trattenersi può essere pericoloso. «A Tokyo è stata l’esperienza peggiore. Non c’erano bagni chimici lungo il percorso, solo qualche omino con un cartello “Toilets→500 meters”. Ma chi può fare 500 metri fuori percorso durante una maratona? Tra andata e ritorno i chilometri da percorrere da 42 diventerebbero 43», ha ricordato Simone. «Alla partenza i bagni si trovano in un’area dedicata, però ti chiedono di stare più di un’ora nella “griglia” di partenza. E in griglia non ci sono bagni. Faceva anche freddo, dovevo andare in bagno e non potevo. In Europa, diciamola tutta, quando si è un po’ fuori dal centro delle città ci si nasconde in un angolo e la si fa dove capita. A Tokyo, se si viene sorpresi si è squalificati e i controlli sono molto stretti».

E allora il secondo obiettivo di Simone – dopo la possibilità di tenere i dispositivi medici fuori dal bagaglio da consegnare prima della partenza – è quello di permettere l’accesso ai bagni fino all’ultimo minuto, nella griglia di partenza o in un’area dedicata. A Tokyo 2026 correrà come ambassador per un’associazione giapponese di diabetici, la IDDM Network (IDDM è una delle definizioni del diabete di tipo 1: Insulin dependent diabete mellitus, ndr). Un’opportunità non solo per gareggiare, ma anche per continuare a sensibilizzare l’opinione pubblica e cambiare le cose.

La strada aperta

A Sidney, Carniglia ha avuto una soddisfazione in più: «Un telegiornale mi ha dedicato un piccolo servizio, mostrandomi con il certificato del Guinness aggiornato. Ora, con la somma dei tempi delle sette major sono il più veloce di tutti tra le persone con diabete di tipo uno».

Una conquista che va al di là del riconoscimento formale perché, come ha spiegato Simone, «noi diabetici abbiamo limitazioni e non è troppo corretto che lo sport ci consideri allo stesso modo di persone, diciamo così, “normali”. Allo stesso tempo non siamo parte dello sport paralimpico: siamo nel limbo in mezzo. Il mio ingresso nel Guinness ha creato le condizioni perché altri atleti diabetici possano puntare ad altri record, nel nuoto in acque libere, per esempio. Molti mi hanno scritto dicendo di voler battere il mio primato: sono stati ispirati da me. Ho aperto una strada».

Entrare nel Guinness non è stato facile. «Anzi, è stato quasi più faticoso che correre le maratone – ha raccontato – perché ho dovuto ottenere i certificati da tutti i direttori di corsa. A Tokyo non hanno voluto rilasciarmelo in inglese e ho dovuto farmi fare una traduzione ufficiale».

Le maratone major sono un sogno per molti, ma anche un impegno economico notevole. Simone le ha corse tutte autofinanziandosi, dedicando ferie, risorse e ogni risparmio a un obiettivo che va ben oltre lo sport. «La gente pensa che mi paghino, ma in realtà spendo tutto quello che ho in viaggi, iscrizioni, attrezzatura. È la mia passione. E la vivo fino in fondo».

Nel frattempo continua a supportare altri atleti con il diabete, soprattutto i più giovani o appena diagnosticati. A novembre accompagnerà un ragazzo italiano a correre la sua prima maratona a New York, che sfrutterà proprio i servizi che Simone ha contribuito a introdurre.

Correre non basta: bisogna lasciare un segno

Carniglia ha già completato tutte le major. Ma nel 2026 non gli basterà ripetersi. Coltiva anche un sogno tecnico: chiudere tutte le major sotto le 2 ore e 45 minuti. Lo ha già fatto nelle altre 5 e ci è andato vicino a Sydney (2 ore e 46) e a New York (2 ore e 48), ma vuole andare oltre. «New York è tosta, ma se riesco ad arrivare preparato, posso farcela. Voglio rifare ogni major al meglio delle mie possibilità».

Simone si allena ogni giorno mai meno di 50 minuti. La settimana tipo? Circa cento chilometri di corsa, più sessioni in palestra, stretching, mobilità, e camminate ovunque. «La macchina la uso solo per andare all’aeroporto. Tutto il resto, lo faccio a piedi». Dopo Sydney ha rallentato, ma ora è pronto a ripartire. E lo fa sempre allo stesso modo: un giorno alla volta, un passo alla volta. Ha creato un modello, una lista di priorità, una missione. E la porta ovunque corra: bagagli disponibili fino alla partenza; accesso ai bagni fino all’ultimo minuto; comunicazione proattiva verso atleti con patologie; trasporto e aree dedicate, dove possibile.

Non corre solo per sé. Corre per rendere visibile l’invisibile. E anche quando non indossa il pettorale, resta in corsa. Perché il traguardo vero – quello di far capire al mondo che i diabetici possono fare tutto – ha ancora una linea bianca. Ma, passo dopo passo, si avvicina.

Questa puntata di L’Unica Alessandria termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.

Ti consigliamo anche:

🐑 La lana delle pecore è un problema per gli allevatori cuneesi (da L’Unica Cuneo)

🎤 Il fact-checking del comizio di Meloni nelle Marche (da Pagella Politica)

🤷🏼 Perché crediamo alle notizie false? Te lo spiega il video di DORA, la piattaforma di videocorsi di Pagella Politica e Facta