Il Museo delle culture lancia un appello per aggiornare i testi dei pannelli e renderli meno colonialisti
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L’obiettivo non è certo quello di riscrivere la storia, ma piuttosto di provare a leggerla da una prospettiva aggiornata, cercando di raccontarla con parole nuove, più adeguate ai tempi – e ai linguaggi – che cambiano inesorabilmente.
Del resto, il Museo delle culture del mondo di Castello d’Albertis non farebbe onore al suo nome se rinunciasse a cogliere i segni di certi cambiamenti. Così, la responsabile del museo, Maria Camilla De Palma, ha pensato di lanciare una “operazione aggiornamento” del lessico dei pannelli, delle schede e delle didascalie che si trovano lungo il percorso espositivo, con la collaborazione di tutti: i genovesi, gli italiani in genere, ma anche i cittadini del resto del mondo.
Lo strumento per coinvolgere il maggior numero possibile di persone nell’impresa è un appello, pubblicato in tutti i canali digitali del museo e nel sito del Comune di Genova che approva e sostiene l’iniziativa. Il progetto viene realizzato grazie al contributo della Fondazione Compagnia di San Paolo ed è rivolto a cittadini, associazioni, gruppi e istituzioni che siano interessati a contribuire a una nuova narrazione delle collezioni esposte al Castello, ripensando testi, didascalie, pannelli e contenuti multimediali, ossia l’intera spina dorsale della visita al Museo, per renderli più adeguati alle nuove sensibilità, alle provenienze e alle origini di tutti i visitatori. All’appello hanno risposto finora una sessantina di persone, tra cui alcune di nazionalità estera, e otto tra associazioni, società e fondazioni.
Altri temi centrali del progetto riguardano l’eredità coloniale delle collezioni, la provenienza degli oggetti esposti nel museo, le strategie di un’eventuale restituzione dei reperti ai Paesi d’origine, l’accessibilità e il dialogo interculturale tra il museo e le varie comunità che negli spazi espositivi sono rappresentate e vengono raccontate in un linguaggio e con modalità che oggi è necessario aggiornare.
Un’operazione culturale, battezzata “Culture nel futuro” che finirà per illuminare di nuova luce, e in prospettiva storica, la figura stessa del capitano Enrico D’Albertis (1846-1932), per volontà testamentaria del quale il museo era nato. Il vulcanico esploratore aveva donato il suo “maniero urbano” al Comune di Genova, a una condizione: che il castello e tutto il suo contenuto divenissero un piccolo giacimento culturale aperto al pubblico. Un “tesoro” che, per la gioia del capitano, nel 2024 ha registrato 29mila visitatori – numero salito a 35.115 nei primi 10 mesi del 2025 – stabilmente al quarto posto in classifica tra i musei comunali più frequentati.
Il castello – costruito in corso Dogali a fine Ottocento sopra i resti delle mura cinquecentesche di Monte Galletto su progetto degli architetti Alfredo D’Andrade e Marco Aurelio Crotta – non solo era la dimora genovese di D’Albertis, ma era anche lo scrigno nel quale il “capitano” aveva voluto custodire i reperti e i saperi raccolti durante le sue esplorazioni in tutto il globo terracqueo nelle sue molteplici vesti di esploratore, scrittore, fotografo, collezionista e creatore di meridiane, nonché navigatore estremo: tre giri del mondo con tutti i mezzi possibili e immaginabili, dalla nave al cammello, compì il nostro capitano, ma il viaggio che lo rese famoso, anche per le avversità che dovette affrontare durante la navigazione, fu la traversata a vela con il suo “Corsaro” sulla stessa rotta che aveva consentito a Cristoforo Colombo di scoprire l’America. E due anni prima, nel 1879, D’Albertis aveva pure fondato a Genova lo Yacht club, il primo circolo velico d’Italia, uno dei più antichi del Mediterraneo. Durante questo suo insaziabile girovagare per il mondo aveva recuperato davvero di tutto: armi, amuleti, canoe, barche, ma anche strumenti musicali, gong e tympanon.
Ciao! Una breve pausa nella lettura per raccontarti una bella novità: questa settimana L’Unica ha tenuto il suo primo evento ad Alessandria. È stato un bel punto di partenza, e ora continuiamo: il 10 dicembre saremo ad Asti. Presto ti faremo avere ulteriori dettagli! Ti aspettiamo!
D’Albertis, vulcanico uomo del suo tempo
Però il capitano era anche uomo del suo tempo e nel suo approccio alla conoscenza dei popoli della Terra aveva a disposizione soltanto l’assortimento lessicale e culturale tipico della sua epoca. E quindi poteva permettersi di dire senza imbarazzi che al mondo servono coloni e colonie ed esortava di conseguenza i giovani a intraprendere sfide avventurose, e a volte crudeli, in terre lontane. «Però questo criterio di intendere il mondo è cambiato e da tempo anche in Occidente ci sono nuove sensibilità», ha detto a L’Unica la responsabile del museo, Maria Camilla De Palma. «Persino in Italia, dove questo processo avanza più a rilento. Già da qualche anno sui nostri canali social, per esempio, i visitatori si dicono soddisfatti dell’esperienza al museo, ma sottolineano quella che viene considerata “la natura coloniale del luogo” che si percepisce dai continui riferimenti a Cristoforo Colombo lungo il percorso di visita».
Urge dunque una modifica dei contenuti della comunicazione, pur senza arrivare agli estremi del cancel culture. «Nessuno di noi pensa che questa sia la strada – ha spiegato ancora De Palma – però crediamo che sia necessario sensibilizzare le persone affinché prendano coscienza dei cambiamenti. Di cui peraltro abbiamo già intercettato qualche segnale».

Uno è, per esempio, il caso della docente del liceo artistico Klee-Barabino che al termine di una visita scolastica al Castello d’Albertis ha pensato di raccogliere con i suoi alunni la sfida lanciata dal museo: i ragazzi daranno vita a un’iniziativa parallela al tema dell’appello. L’obiettivo è quello di comunicare ai loro coetanei, con grafica e linguaggio adeguati, il senso e l’importanza della “operazione aggiornamento”. Gli studenti stanno già lavorando a una serie di manifesti che saranno affissi lungo il percorso espositivo del Castello.
«I pannelli e le schede che intendiamo modificare erano stati scritti nel 2004 per la riapertura del Museo, in occasione di “Genova capitale europea della cultura”, dopo un lunghissimo periodo di restauri. E adesso abbiamo deciso di cogliere al volo l’opportunità che ci viene offerta da un progetto finanziato da Compagnia di San Paolo per il rinnovamento digitale del museo che prevede l’acquisto di videoproiettori e monitor, l’editing di alcuni video che utilizziamo già da tempo, la produzione di almeno due video nuovi e altro ancora», ha aggiunto De Palma. «Ma potevamo fare un passo avanti, sia pure piccolo, nell’aggiornamento digitale e lasciare inalterata la parte cartacea? Meglio di no. Così, senza fondi, riutilizzando i supporti dei pannelli esistenti e con la collaborazione di Liguria digitale che si occuperà, tra l’altro, della nuova impaginazione dei testi e della grafica, abbiamo deciso di provarci».
Il perché è presto spiegato: De Palma, che si sente stretta nei suoi panni di antropologa, considera il museo un luogo «partecipativo, relazionale, che deve essere rappresentativo di una vasta maggioranza di persone, di più pubblici possibili – ha spiegato –. Qui al Castello il rapporto con le persone di background migratorio c’è da sempre: in termini, per esempio, di collaborazione nell’allestimento delle mostre o di ospitalità per una serie di iniziative. Ma oggi non funziona più il modello del museo samaritano che apre le sue porte a tutti e concede di prendere la parola, non basta neanche più parlare di inclusione perché chi può permettersi di stabilire chi è dentro e chi sta fuori? Bisogna cominciare a ragione in termini di coprogettazione».
Il primo gruppo di lavoro
Sulla base di queste considerazioni è stato costituito un primo gruppo di lavoro composto, per il Comune, dalla stessa responsabile del museo, Maria Camilla De Palma, e da Ilaria Boeddu, affiancate da un gruppo di volontari, specialisti e appassionati, che si erano già avvicinati al museo da diverse prospettive, professionali o di studio.
A loro spetta la parte preliminare dell’operazione, cioè stabilire dove e come sia necessario intervenire, ma non soltanto. «Si dovrà anche stabilire che cosa stride – ha spiegato De Palma – che cosa è inaccettabile, che cosa manca e anche che cosa si può togliere, perché i testi dei pannelli sono troppo lunghi e si sa che i visitatori sono sempre meno inclini a soffermarsi nella loro lettura. E infine raccogliere e dare corpo a tutte le osservazioni di chi vorrà prendere parte a questa opera di rielaborazione lessicale collettiva».
Il gruppo è già all’opera da un mese e alcuni di loro – Linda Marsili, Mario Pilosu e Lucia Romani – ci hanno accompagnato, insieme con la responsabile del museo, in un tour guidato lungo i pannelli e gli ambienti passibili di revisione. Così abbiamo scoperto che qualche modifica in realtà è già stata applicata. Una proprio all’ingresso, dove tre anni fa è stato riscritto il testo del pannello che è un po’ il biglietto da visita del museo e che indica il modo più consono per avventurarsi alla scoperta delle collezioni del capitano: dalla necessaria prospettiva storica all’attenzione per le popolazioni indigene del mondo e anche per le popolazioni migranti di Genova. Così come, più avanti, colpisce l’accorgimento adottato per evitare di urtare la sensibilità di alcuni con l’esposizione in una bacheca in di un teschio umano incoronato che spunta tra i reperti recuperati in Nuova Guinea dal cugino del capitano, Luigi Maria D’Albertis. Il quale se a suo tempo era considerato il primo occidentale a penetrare nel cuore della Nuova Guinea, oggi viene invece definito un predatore a scopo di lucro, ossia il “cattivo” di ogni film della saga di Indiana Jones. Ebbene, sopra la bacheca in cui sono esposti alcuni degli oggetti di Luigi Maria D’Albertis è stata sistemata un’antina ribaltabile che preclude alla vista il suddetto teschio coronato. Su questo pannello mobile si legge, in italiano e inglese, di fare attenzione prima di sollevarlo perché proprio lì sotto si trova un «contenuto sensibile (...) potenzialmente offensivo e disturbante».

Ma in altri ambienti la rivoluzione deve ancora arrivare: così in certi pannelli i componenti delle popolazioni indigene vengono ancora definiti “indiani” e ricorrono definizioni come “trofei coloniali” o “trofei di caccia”. E poi le armi: quelle dei coloni, in posizione d’onore al piano nobile, e quelle degli “indiani”, un po’ più defilate al piano inferiore. Ma anche quelle impiegate nelle guerre coloniali oppure quelle usate dal capitano per la caccia grossa in Africa.
«Il museo è una fiction. La sua neutralità è soltanto un’illusione. E allora tanto vale cambiare narrazione», ha spiegato De Palma. Come nel caso di Cristoforo Colombo che, qui come altrove, è raccontato con i toni dell’epopea e da un unico punto di vista: quello occidentale, senza accennare alle conseguenze – non sempre fauste per le popolazioni indigene – della scoperta dell’America. L’impresa viene celebrata al Castello in tutte le sue declinazioni che culminano infine nella famosa scultura del Colombo giovinetto, immortalato dallo scalpello magistrale di Giulio Monteverde nell’atto di scrutare pensieroso il mare di Genova dalla loggia della sala – manco a dirlo – colombiana. «Del resto nel 2004 – ha aggiunto De Palma – era troppo presto per parlare di Colombo senza definirlo il nostro eroe».
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C’è ancora tempo per le candidature
Ed è qui che si annida la motivazione che ha dato la spinta definitiva all’appello di Castello d’Albertis e del Comune di Genova a tutti coloro che abbiano interesse per questi temi affinché offrano il loro contributo di idee e di esperienze per cambiare il linguaggio del museo, ventuno anni dopo la sua riapertura al pubblico. Con l’auspicio che partecipino all’operazione anche persone di altri Paesi, proprio per capire se può essere rappresentata lungo il percorso di visita una narrazione alternativa a quella “italiana”, per quanto corretta possa essere. Per raccogliere questi nuovi punti di vista e metterli a frutto sono previsti, tra l’ultima settimana di novembre e la fine di gennaio, tre incontri con chi avrà aderito all’iniziativa. L’operazione rinnovamento si concluderà a febbraio, dopodiché si passerà alla parte strettamente operativa sui pannelli.
«Con “Culture nel futuro” vogliamo che il Museo delle culture del mondo Castello D’Albertis diventi un laboratorio vivo di confronto tra culture, generazioni e saperi – ha spiegato in un comunicato l’assessore alla Cultura del Comune di Genova, Giacomo Montanari –. Questo progetto rappresenta un passo concreto e tangibile verso un museo più contemporaneo, inclusivo, aperto e partecipato, dove ogni voce può contribuire a rendere il patrimonio culturale uno strumento di conoscenza, crescita e coesione sociale. È un invito a riflettere sul passato, a comprendere le radici delle nostre comunità e a immaginare insieme un futuro più equo e condiviso. Un passaggio necessario per cominciare a considerare i luoghi della cultura come spazi nei quali sentirsi a casa propria». Per aderire all’iniziativa, resta ancora qualche giorno. Le manifestazioni di interesse possono essere inviate entro il prossimo 23 novembre compilando il questionario a questo link.
E poi chissà che, partendo proprio dall’esperienza del museo, non si metta mano alla rilettura in chiave critica anche della toponomastica che circonda il castello, a cominciare dalla strada in cui ha sede, corso Dogali, per poi scendere ai piedi della collina, in via Amba Alagi e via Amba Aradam. Nomi che celebrano imprese di un’Italia imperiale di cui oggi non c’è di che andar fieri.
Questa puntata di L’Unica Genova termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.
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