Il “Comitato voci migranti” vuole rendere Torino un punto di riferimento per la democrazia in Europa

Il “Comitato voci migranti” vuole rendere Torino un punto di riferimento per la democrazia in Europa

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«Stiamo scrivendo una proposta da presentare al Consiglio comunale di Torino che dice che noi vogliamo partecipare al “bene comune”. Se non possiamo cancellare le decisioni che prendono loro, almeno vogliamo dire la nostra su trasporti, educazione, sanità, politica. Vogliamo farlo perché siamo persone intelligenti, anche se a voi non sembra perché non parliamo bene l’italiano». Paula Ospina è molte cose: è giovane, è una lavoratrice, è colombiana, è titolare di una protezione sussidiaria sul territorio italiano che le ha consentito di sfuggire alle minacce di morte subite a Bogotà per via della sua attività politica e sindacale. È soprattutto indignata per il trattamento riservato, in Italia, alle persone con background migratorio come lei. Per questo, per cambiare le cose, si è resa parte di un’iniziativa collettiva, che inizia dall’epopea per avere i documenti cui devono sottoporsi gli stranieri, passa per la creazione del “Comitato cittadino Voci migranti” e arriva a rivolgersi direttamente al Comune.

La denuncia sui social

«Il sistema è troppo violento con noi», ha detto Ospina a L’Unica. «Siamo qui per lavorare e paghiamo le tasse. Allora, perché a noi dicono che il nostro passaporto è pronto tra mesi, mentre a un italiano normale basta un mese?». Ospina ha iniziato ad attivarsi per il rinnovo dei suoi documenti nell’agosto 2024, quattro mesi prima della scadenza: ha fatto anche un viaggio a vuoto a Salerno, la città dove aveva chiesto asilo al suo arrivo in Italia, visto che all’inizio le avevano detto che i documenti avrebbe dovuto richiederli lì. A quel punto si è accorta che non risultava residente né al Sud né al Nord, così ha dovuto avviare la procedura in parallelo alla ricerca della sua residenza.

«Un incubo». Quando si è presentata alla Questura di Torino di via Verona per chiedere un appuntamento per il rinnovo, si è trovata davanti una scena surreale: una fila lunghissima, giacigli di cartone a terra dove le persone avevano dormito per non perdere il posto durante la notte, volti assonnati, qualcuno aveva persino la febbre. In quel momento ha deciso che doveva fare qualcosa, per sé e per le persone intorno a lei.

«Mi sono preparata per settimane, fisicamente e psicologicamente – ha detto –. Sui social scrivevo: “Ragazzi, mi serve una sedia da spiaggia: non vado al mare, vado a dormire in Questura”. Oppure: “Ragazzi, mi serve una tenda: non vado in montagna, ma vado a dormire in Questura”. La gente che mi seguiva ha cominciato a chiedermi: “In che senso, Paula? Perché ti serve una sedia?”». Ospina sapeva bene a cosa stava andando incontro, ma ha deciso che doveva restituire dignità a quelle persone in fila e stimolare un senso di rivendicazione dei loro diritti. «Un signore anziano, italiano, si è avvicinato alla nostra fila e ha lasciato dei soldi», ha raccontato. «Avrà pensato: “Questi poveracci”. Io ero rossa di rabbia. Gli ho urlato: “Ma che pensa di fare? Guardi che qui siamo tutti lavoratori”».

Cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale

Le denunce sui social hanno attirato giornali e tv locali, finché la pressione ha costretto le istituzioni a muoversi. È arrivata la Protezione Civile, sono stati sistemati dei bagni chimici, gli uffici immigrazione della Questura di via Verona sono stati chiusi e al loro posto sono state attivate altre sedi, in via Dorè, via Ruffini, via Botticelli. Per chi deve solo chiedere il rinnovo dei documenti (e non fare la domanda di asilo) è stato introdotto finalmente un sistema di prenotazione online. Ma allora perché, se molto è cambiato, la situazione è rimasta critica?

«Il sistema è pensato per essere respingente e per mettere a disagio», ha commentato con L’Unica Asuka Ozumi, ricercatrice di origini giapponesi che vive in Italia da anni e lavora all’Università di Torino. Nonostante i suoi due figli siano nati qui e siano cittadini italiani, lei per un certo periodo ha rischiato di trovarsi in una situazione di irregolarità. «Dovevo rifare in fretta la carta di soggiorno», ha spiegato. Dopo una serie di difficoltà burocratiche per raccogliere tutti i documenti necessari, finalmente è riuscita a mandare avanti la pratica. «A quel punto mi hanno consegnato una ricevuta e mi hanno detto: “Guardi, deve controllare lei in autonomia quando il permesso sarà pronto sul portale online. Oppure potrebbe arrivarle un SMS”».

Dopo cinque mesi non aveva ricevuto alcun messaggio, così si è presentata ancora all’ufficio di via Botticelli. «C’erano due code: una, di quattro o cinque persone, per chi aveva ricevuto l’SMS. Un’altra, sterminata, per chi non aveva ricevuto nulla». A malincuore si è messa in fila. Tutto era affidato alla discrezionalità della polizia e dei funzionari presenti. «Io parlo italiano, sono laureata, ho un dottorato di ricerca e un lavoro in università», ha detto a L’Unica. «Ho tutti gli strumenti per potermi barcamenare e capire che cosa c’è scritto su un documento. Nonostante questo, per me è stata un’odissea. Ma non tutti sono padroni della lingua. Soprattutto non tutti possono permettersi di aspettare sei mesi una carta senza avere alcuna indicazione in merito». Una situazione che Ospina conferma: «È una cosa che ti distrugge mentalmente e fisicamente. E pensa che c’è chi deve ripeterla ogni anno-anno e mezzo».

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Una questione di diritto e solidarietà

L’opacità della burocrazia italiana non è soltanto faticosa, è anche fuorilegge. «Molto spesso la Questura, in violazione delle norme, non si comporta come una qualsiasi altra pubblica amministrazione», ha detto a L’Unica l’avvocata Elena Garelli di ASGI, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. «Quando una persona presenta una richiesta – ha spiegato – le pubbliche amministrazioni sono obbligate a protocollarla e rispondere per iscritto. Questo non accade con l’ufficio immigrazione della Questura: molto spesso le persone vengono respinte perché manca un documento. “Tornate quando lo avrete” è l’unica cosa che viene detta loro».

Questa situazione opaca lascia ampio spazio alle irregolarità. «Nella mia esperienza posso dire che spesso i documenti richiesti dalla Questura non sono quelli previsti dalla normativa», ha aggiunto Garelli. «Ma senza nulla di scritto non è possibile replicare, né sostenere che una richiesta immotivata sta ostacolando un diritto. Li mandano via così, e loro non hanno neppure una prova di essere davvero andati in quegli uffici».

ASGI assiste le persone migranti e segue le loro cause fino nelle aule di tribunale. Si occupa sia di chi deve rinnovare i documenti, sia dei richiedenti asilo (coloro che per la prima volta fanno domanda di asilo in Italia). Ed è qui – ha raccontato l’avvocata – che si gioca il braccio di ferro con la Questura: «L’accusa più frequente che ci viene mossa è di voler lucrare sulla situazione aprendo delle cause inutili». In realtà, spesso gli avvocati usano l’espediente di “accorpare” le cause per non intasare il tribunale. E anche perché un’istanza presentata da un gruppo più ambio di persone ha una probabilità più alta di ottenere una risposta positiva. «Il paradosso è che a quel punto la Questura fa sempre eccezione di non ammissibilità sulla collettività della causa».

La ragione sembra essere politica. «Io credo che ci sia la volontà di creare un ambiente inospitale per le persone migranti – ha detto ancora Garelli –. Penso che l’obiettivo sia creare un contesto in cui regolarizzarsi sia difficile e pesante».

La condanna del tribunale di Torino

È al tribunale di Torino che ASGI ha chiesto di accertare le pratiche discriminatorie della Questura e l’assenza di un modello organizzativo trasparente, soprattutto per quanto riguarda le difficoltà riscontrate dai richiedenti asilo. «La loro situazione è sempre drammatica, perché, essendo per loro una prima richiesta, si tratta di persone che si trovano irregolarmente sul territorio. Ciò vuol dire che ogni giorno di attesa è un giorno in più in cui potrebbero essere allontanati», ha aggiunto Garelli. «Un giorno in più in cui non riescono a fare la tessera sanitaria e quindi ad accedere al medico, in cui non possono lavorare, né firmare il contratto per una casa, o con la banca».

In primo grado, ASGI ha vinto. «Il tribunale di Torino ha riconosciuto una pratica discriminatoria e condannato la Questura al pagamento delle spese. L’ha obbligata, cioè, a trovare un modello organizzativo differente suggerendo di adeguarsi a quello milanese, che prevede quanto meno di fissare degli appuntamenti per i richiedenti asilo».

Il vuoto istituzionale viene riempito, in qualche modo: ristabilendo il diritto, come fa ASGI, ma anche coltivando la solidarietà dal basso. «Nella “fila dell’umiliazione”, per esempio, c’erano anche Angelica e T., il suo bambino di due anni», ha raccontato Ospina. «Lei si è portata la sua tenda, si è sistemata. C’era una regola in via Verona: chi non dorme non entra, può entrare in fila soltanto chi passa la notte lì davanti. Io e alcuni altri abbiamo detto ad Angelica di tornare a casa con T. e le abbiamo tenuto il posto. Il giorno dopo, un gruppo di migranti voleva passare avanti, abbiamo dovuto lottare per proteggere il posto di Angelica. Stavamo arrivando a usare la violenza addirittura tra noi». Qui Ospina si è commossa: «Si è creata questa cosa molto importante, forte, tra di noi. Un senso di protezione. Un’esperienza di solidarietà, sì, ma soprattutto di resistenza».

La proposta da presentare in Comune

Da queste esperienze è nato il “Comitato cittadino voci migranti”, proprio contro le “file dell’umiliazione” che, nonostante la chiusura degli uffici di via Verona, continuano a riempire i marciapiedi delle altre tre sedi dell’ufficio immigrazione. Ospina ritiene che l’obiettivo fosse quello di “spezzettare” le file rendendole meno scandalose, ma nella pratica i problemi sono rimasti. «Permangono la scarsa trasparenza, la mancanza di comunicazione e l’arbitrarietà delle scelte nei rapporti tra persone straniere e Questura».

Come si legge in un post sulla pagina Instagram, il Comitato raccoglie «tutte le persone migranti, studenti, lavoratori, di tutte le origini, così come gli attivisti per i diritti dei migranti», proprio per darsi man forte. In esso confluiscono alcuni esponenti di ASGI e la stessa Paula Ospina. «Nella pratica cerchiamo di risolvere i problemi “piccoli” delle persone migranti: ad esempio, aiutiamo circa tre persone alla settimana nella richiesta dei loro documenti. C’è tutto un lavoro invisibile dietro: io ho dovuto imparare un po’ di tagalog, la lingua delle Filippine, un po’ di arabo e altre lingue», ha raccontato Ospina.

Accanto a questo lavoro quotidiano si inserisce quello per formulare la proposta da presentare al Consiglio comunale di Torino. La bozza del documento – che L’Unica ha potuto visionare in anteprima – è un manifesto per l’inclusione delle persone migranti nelle consultazioni locali della città. «La democrazia locale sostiene il principio che chi contribuisce allo sviluppo economico e sociale di una comunità deve avere voce nelle decisioni che influenzano la vita quotidiana», si legge nel documento. «A Torino, una percentuale significativa della popolazione è composta da persone migranti che rispettano gli obblighi fiscali, partecipano al tessuto produttivo e contribuiscono attivamente alla coesione sociale. Per questo, l’esclusione totale di queste persone dai processi decisionali politici genera un deficit democratico incompatibile con i valori di uguaglianza e giustizia che si ispirano tanto alla Costituzione italiana quanto alla normativa europea».

La speranza del Comitato è quella di combattere l’esclusione politica attraverso un progetto di partecipazione attiva alla vita pubblica della città. Le richieste sono chiare e il documento verrà presentato presto. Chissà che da questa esperienza di abusi e deprivazione non possa uscire fuori una spinta dal basso di tale portata da rendere Torino, come vorrebbe il Comitato, «un punto riferimento per l’inclusione e la democrazia locale in Europa».

Questa puntata di L’Unica Torino termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.

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