Per l’architetto Carlo Ratti a Torino bisogna smettere di costruire

Per l’architetto Carlo Ratti a Torino bisogna smettere di costruire
Foto: Pixabay

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L’Unica ha chiesto a Carlo Ratti, urbanista tra i più noti al mondo, docente al MIT di Boston, curatore della Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, che cosa ne pensa delle scelte urbanistiche di Torino, dello sviluppo della città negli ultimi anni, delle nuove sfide che attendono i centri urbani all’epoca delle accelerazioni impresse dall’intelligenza artificiale. I fondi previsti dal PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, rappresentano una miniera d’oro che solo a cantieri chiusi, con una visione complessiva di piccoli o grandi passi nel superamento del “brutto” e della ricerca del “bello”, potrà dimostrare di essere stata sfruttata al meglio.

La pedonalizzazione dell’ultimo tratto di via Roma, sul quale molti cittadini sono scettici, è uno dei progetti su cui punta l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Stefano Lo Russo. Il Parco del Valentino, luogo simbolo e gioiello verde della città, è protagonista di un progetto di riqualificazione che copre 421 mila metri quadrati di parco pubblico: cinque grandi interventi, 166 milioni di spesa. Un piano ambizioso per il recupero e la valorizzazione della navigabilità del fiume e del patrimonio architettonico e storico: nel pacchetto la riqualificazione del Padiglione Nervi di Torino Esposizioni con la nuova Biblioteca Civica, il ripristino delle funzioni originarie del Teatro Nuovo (ancora in fase di progetto), il restauro e la valorizzazione del Borgo Medievale. A pochi chilometri, tuttavia, giace tristemente il colosso arrugginito del Palazzo del Lavoro, del cui destino si dibatte da anni,  orribile biglietto da visita offerto a chi entra in città dall’autostrada. Ratti, a tal proposito, lancia un’idea.

Carlo Ratti – Foto: World Economic Forum, Mattias Nutt

Architetto Ratti, cosa ne pensa della Torino del 2025? Le sembra una città con una visione chiara dal punto di vista urbanistico?

«Passeggiando per Torino in questi mesi, si percepisce un certo dinamismo. Cantieri che si aprono, ma soprattutto lavori che si concludono in tempi ragionevoli: è il caso del recente intervento sul tram in via Po. Mi pare che la città si stia rimettendo in moto e questo, di per sé, è un segnale importante».

Si parla della riqualificazione del Palazzo del Lavoro in un centro culturale da realizzare con fondi del Qatar. Secondo lei è una soluzione percorribile?

«Il Palazzo del Lavoro è un capolavoro dell’architettura moderna. Qualche anno fa il DOCOMOMO (Documentation and Conservation of buildings, sites and neighbourhoods of the Modern Movement, ndr), il registro internazionale delle architetture più rilevanti del movimento moderno affinché possano essere conservate e documentate, parlava persino di supermercati. La nostalgia da sola non basta a salvarlo. Se una destinazione culturale – con fondi qatarini o di qualsiasi altra provenienza – può restituirgli vita, ben venga. Anzi, rilancerei: perché non trasformare l’intero asse monumentale di corso Unità d’Italia in un “miglio dell’arte e del design”? Intervenendo anche su Palazzo a Vela, da cui sarebbe ora di rimuovere quegli orrendi interventi aggiuntivi eredità delle Olimpiadi. Facciamo volare di nuovo la sua straordinaria volta in calcestruzzo di Franco Levi».

Si attende entro fine anno il nuovo piano regolatore dell’assessore all’Urbanistica Paolo Mazzoleni, accusato di corruzione, abuso edilizio e lottizzazione abusiva a Milano, la sua città. Che cosa si aspetta e che cosa teme?

«La vicenda giudiziaria riguarda Milano, non Torino. Conosco la serietà professionale di Mazzoleni. Sono certo che il piano punterà su temi centrali: transizione ecologica, qualità dell’abitare, riuso degli spazi vuoti, valorizzazione dello spazio pubblico. Con uno sguardo aggiornato: capace di leggere la Torino di oggi, non quella di vent’anni fa. Un suggerimento? Niente nuova espansione edilizia. Con la popolazione in calo, costruire nuovi volumi significa solo svuotare altre parti di città. Lavoriamo su ciò che già abbiamo».

Torino investirà 12 milioni di euro nell’ambito del PON Metro (il Programma Operativo Nazionale Città Metropolitane adottato dalla Commissione europea, finalizzato a migliorare la qualità dei servizi e a promuovere l’inclusione sociale in quattordici città, tra cui Torino) per pedonalizzare l’ultimo tratto di via Roma e riportare la pavimentazione all’altezza dei portici. Le piace il progetto?

«La pedonalizzazione è quasi sempre una scelta saggia. In città dense come Torino, un intervento mirato anche solo su una strada può generare benefici su scala più ampia, di quartiere. Questo vale molto meno nei contesti urbani più dispersivi. Con l’arrivo della linea 2 della metropolitana, mi auguro che interventi come questo si moltiplichino, magari accompagnati da più verde. Il verde in città non è un lusso: ha impatti concreti sulla salute e sull’adattamento climatico. Parigi negli ultimi anni ha investito molto su questo fronte (noi abbiamo partecipato con alcuni progetti). Torino, la “piccola Parigi”, potrebbe ispirarsi alla sua sorella maggiore?».

Gli interventi al Valentino e la nuova Biblioteca nel vecchio Palazzo Esposizioni: episodi virtuosi ma isolati, o segnali di una visione complessiva?

«In realtà, la dicotomia tra episodi isolati e visione complessiva è fuorviante. Le città si costruiscono sempre attraverso una dialettica tra visioni dall’alto e iniziative diffuse dal basso, come facciamo vedere in questi mesi alla Biennale Architettura di Venezia, di cui ho l’onore di essere direttore. L’importante è agire».

Gli ambientalisti protestano contro i progetti per un nuovo ospedale da costruire nel Parco della Pellerina e per la “cittadella dello sport” nel parco del Meisino. Una protesta legittima o fuori tempo?

«Non seguo da vicino i singoli progetti, vivendo poco a Torino, ma un principio dovrebbe guidarci: in un Paese che invecchia e si spopola, consumare nuovo suolo è una scelta senza senso. Dobbiamo puntare sul riuso e sulla rigenerazione dell’esistente. Torino, in questo, è stata pioniera: basti pensare al Lingotto o alle OGR. La vera sfida oggi è estendere quell’approccio».

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Lei ha riflettuto molto su un modello di città che cerchi di ritrovare uno spirito umanistico senza rinunciare alla tecnologia. Torino si sta muovendo nella giusta direzione?

«Proprio qualche giorno fa, in Piazza Castello, ho notato uno schermo alla fermata dell’autobus con gli orari in tempo reale. Una piccola cosa – arrivata in ritardo rispetto ad altre città – ma che cambia l’esperienza urbana. Se sai che l’autobus arriva tra dieci minuti, puoi scegliere di camminare, prendere una bici, o fare una telefonata a chi ami. La tecnologia umanistica comincia da qui. E Torino, per dimensioni e cultura, può diventare un laboratorio ideale per queste sperimentazioni».

A Torino ci sono telecamere, multe per le corsie preferenziali, ma una metropolitana a mezzo servizio che chiude troppo presto per una città che vorrebbe andare al passo della modernità. Quanto conta la mobilità nei processi di rigenerazione urbana?

«Le città nascono – da millenni – per far incontrare le persone. La mobilità è la loro infrastruttura vitale. Non basta disincentivare l’uso dell’auto: bisogna rendere il trasporto pubblico e la mobilità attiva (biciclette, pedoni) la scelta più semplice e naturale. Una metropolitana che chiude prima di mezzanotte penalizza chi vive fuori dal centro, danneggia la vita culturale e incentiva l’uso dell’auto. Estendere gli orari e migliorare l’affidabilità della rete avrebbe effetti immediati su inclusione, salute e sostenibilità. Lo facciamo vedere in questi mesi alla Triennale di Milano, in un progetto sviluppato con il sociologo americano Richard Sennett».

Quanto possono contribuire gli esperti di Bloomberg al lavoro a Torino sullo studio della città nell’ambito del nuovo piano regolatore per aiutarla a diventare più internazionale e attrattiva?

«Li conosco bene per il lavoro che hanno svolto a New York e Parigi: sono competenti e capaci di visioni innovative. Ma il loro contributo sarà davvero utile solo se inserito in un dialogo ampio con chi vive la città ogni giorno. Saranno poi i torinesi a doversi pronunciare su che città vogliono in futuro».

Le città del futuro e l’intelligenza artificiale in urbanistica. Torino ha le competenze per cogliere questa occasione o prevalgono i timori?

«Le competenze tecniche non mancano. Torino ha una popolazione tra le più istruite d’Italia e una tradizione amministrativa che ha saputo innovare. Negli anni Sessanta, veniva celebrata nel film The Italian Job come una delle città più smart d’Europa. Perché non tornare a esserlo, oggi, mettendo i nuovi strumenti tecnologici al servizio del bene comune?».

Carlo Ratti, architetto e ingegnere, insegna al MIT di Boston e al Politecnico di Milano. È fondatore dello studio di design e innovazione CRA-Carlo Ratti Associati (Torino, New York, Londra), e curatore della 19ª Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia attualmente in corso, aperta fino al 23 novembre 2025 e intitolata “Intelligens. Natural. Artificial. Collective”

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