All’Università di Genova gli studenti continuano a protestare per la Palestina

All’Università di Genova gli studenti continuano a protestare per la Palestina
Foto: Roberto Orlando

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Aggiornamento della mattina del 17 ottobre 2025: Ora, dopo tre settimane, è finita l’occupazione del rettorato di Balbi 5. Gli studenti hanno deciso di convocare un’assemblea permanente nell’aula 6 di via Balbi 2 tutti martedì alle 20. Le richieste rivolte al rettore Delfino restano le stesse. «È stato un risveglio delle coscienze collettivo», rivendicano. La battaglia continua.


«Dalle scuole e dalle università per la Palestina e la Flotilla blocchiamo tutto!». Lo striscione che sfilava nei cortei di Genova è la didascalia-manifesto della lotta che va in scena nelle piazze e nella sede del rettorato occupato, in via Balbi 5. Dove studenti e studentesse hanno organizzato un presidio permanente con il relativo blocco delle lezioni: dandosi il cambio a dormire nelle tende, sistemate sotto il porticato, con una simbolica barchetta di carta al centro del cortile. E un calendario di incontri aperti alla città che ha ospitato la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori occupati Francesca Albanese e il partigiano Giotto, Giordano Bruschi. Eccolo, quello che è stato definito l’“equipaggio di terra” della Global Sumud Flotilla, il volto giovane dei cortei che dal 30 agosto, proprio da Genova, hanno acceso la miccia della mobilitazione accompagnando la partenza delle prime imbarcazioni italiane della Flotilla dal porto antico.

La lotta non si ferma, prosegue a oltranza affinché l’ateneo rescinda le collaborazioni con Israele e i rapporti con l’industria bellica, nonostante il pugno duro mostrato dal rettore Federico Delfino, che ha denunciato gli studenti in occupazione per “vilipendio e interruzione di pubblico servizio”. Il rettore ha incassato anche la telefonata di solidarietà della ministra dell’Università Anna Maria Bernini, che è tornata in più occasioni sul tema minacciando gli studenti di dover risarcire i presunti danni per quelli che ha definito gravi atti vandalici e rispetto alla presunta aggressione – secondo la versione fornita dall’Università di Genova – a un dipendente tecnico-amministrativo che voleva accedere nell’ateneo occupato, dove è in atto il blocco delle lezioni.

«Abbiamo dimostrato che una reale opposizione di alternativa è possibile in questo Paese, e che l’unità tra studenti e lavoratori è la chiave per costruirla», hanno spiegato a L’Unica gli studenti del collettivo “Cambiare rotta”. «Abbiamo bloccato per la prima volta la stazione di Genova Principe, e continueremo a mobilitarci nelle università e a bloccare le città finché questa classe dirigente non si assumerà la responsabilità nel genocidio in Palestina. Il governo Meloni deve dimettersi».

Le pantere tornano a ruggire?

È sempre azzardato paragonare movimenti che prendono vita in contesti lontani, nel tempo e nello spazio. Ma bisogna forse riavvolgere il nastro fino al dicembre del 1989, per ritrovare quella stessa scossa che si propaga in tutti i principali atenei italiani. In quel caso, tutto iniziò a Palermo, alla facoltà di Lettere e Filosofia. Il ministro dell’Università di allora era Antonio Ruberti (PSI), il governo era il sesto guidato da Giulio Andreotti: la riforma Ruberti intendeva riorganizzare gli atenei seguendo il principio della libertà finanziaria e statutaria. Di fatto, si aprivano le porte a relazioni pericolose tra pubblico e privato, con il settore privato incentivato a orientare la ricerca secondo i propri interessi.

La miccia della protesta si era propagata veloce tra gli atenei. Il mese successivo, a Roma, era apparso in corteo uno slogan: «La pantera siamo noi». Lo striscione prendeva le mosse dalla cronaca: nella periferia romana, in quel periodo, aveva fatto scalpore la notizia della fuga di una pantera che le forze dell’ordine non riuscivano a catturare. Il logo – con il suo simbolo che evocava indomabilità e sfida all’ordine costituito – era servito.

Oggi, naturalmente, contesto storico e sociale sono cambiati radicalmente. Ma la lotta dei portuali genovesi al fianco della organizzazione umanitaria Music for peace ha innescato un’onda di ribellione: che studenti e studentesse hanno colto, facendo propria la battaglia.

Foto: Roberto Orlando

Chi sono, cosa chiedono

L’Unica ha incontrato, nel rettorato occupato, le studentesse e gli studenti in mobilitazione. È il collettivo “Cambiare rotta” a guidare la lotta, ma il movimento è composito e non accetta sigle ed etichette. Alcuni studenti fanno parte di “Giovani contro la guerra”, altri di “Opposizione studentesca d’alternativa”: il gruppo è vasto ed eterogeneo e soprattutto è nato dal basso, composto da universitari e anche da alunni delle scuole superiori. Al centro del cortile di via Balbi 5 è appiccicato un grande foglio con gli eventi da programmare, da lunedì a venerdì. «Vogliamo che questo spazio diventi un’agorà di confronto, un punto nevralgico aperto alla città – ha spiegato una studentessa – un luogo dove parlare di Palestina, invitare relatori, discutere: per studenti di tutte le età e per chi voglia attraversarlo. Per un’istruzione alternativa a quella bellicista».

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L’agorà

Nel cortile del rettorato strapieno, con le persone ad ascoltarla sedute per terra, è venuta a parlare la giurista Francesca Albanese. La comunità ebraica genovese aveva definito «inopportuni» i suoi interventi nella giornata del 7 ottobre, secondo anniversario dell’attacco di Hamas sul suolo israeliano. «Questo è giorno drammatico e non c’è niente di romantico in un giorno così – ha detto Albanese davanti a studentesse e studenti – che ci volesse tanta violenza per accorgerci della Palestina è qualcosa che ci parla della nostra miseria. Dove eravamo tutti, prima? Dov’erano l’università, i lavoratori, la comunità internazionale?». Quanto alla mobilitazione che ha visto a Genova il suo epicentro, Albanese ha sottolineato: «Il blocco delle navi, delle università, quello che state facendo, serve. La gente deve sapere come intervenire. Se ci muoviamo tutti insieme all’unisono, a piccoli passi, possiamo ottenere qualcosa».

Pochi giorni dopo è stata la volta della lezione di Giordano Bruschi, memoria storica delle lotte del Novecento. È stato introdotto da uno studente che ha rimarcato: «Tocchiamo con mano il filo rosso che ci collega alla nostra storia partigiana, perché quello che è stato ieri ci serve a leggere quello che sarà domani». Bruschi ha poi raccontato le vite di due partigiani universitari, Giacomo Buranello e Felice Cascione e ha chiesto a ragazze e ragazzi di «iniziare una collaborazione, un lavoro insieme». Ha portato con sé il calendario dei santi partigiani, martiri della Resistenza, e una pila di libri. E ha chiuso maliziosamente: «Regalateli al rettore Delfino».

Le domande al rettore

Le richieste all’ateneo sono elencate punto per punto su un volantino distribuito all’ingresso: «Non abbiamo intenzione di andarcene fino a che non otterremo le seguenti rivendicazioni: rescissione totale degli accordi tra UniGe e l’industria bellica; rescissione totale del bando MAECI, che ci lega a stretto giro con le politiche di apartheid sioniste; sostegno formale e incondizionato al popolo e alla resistenza palestinese e alla Global Sumud Flotilla». Richieste a cui non è arrivata nessuna risposta. Però sono arrivate le denunce.

«Si tratta di metodi repressivi, che tentano di intimidirci», ha argomentato con L’Unica Leonardo, studente di “Cambiare rotta”. «Quello che è stato diffuso dal rettore e rilanciato dalla ministra è diffamatorio – ha detto – noi non abbiamo aggredito nessun tecnico che cercava di entrare, tutto ciò è ridicolo. Anzi: chi ha bisogno di prendere un fascicolo può farlo, così come il personale che fa le pulizie e i vigili del fuoco adibiti ai controlli hanno potuto lavorare tranquillamente. Il nostro rispetto per i lavoratori è totale: non accettiamo mistificazioni».

C’è poi un’altra vicenda che viene vissuta come un tentativo dell’ateneo di dividere, e mettere gli studenti in occupazione in contrapposizione con i dottorandi. Perché chi lavora nell’ateneo con una borsa di dottorato si è visto recapitare questa email: «Si invia la presente per segnalare che il perdurare del blocco all’accesso degli uffici di via Balbi 5 rende impossibile terminare nei tempi inizialmente previsti le operazioni di caricamento, controllo e invio in banca delle borse di dottorato di settembre». Dunque, si precisa, «l’accredito della borsa subirà con molta probabilità un ritardo».

«Una strategia per dividerci, visto che gli stipendi dei docenti vengono invece regolarmente pagati», hanno attaccato gli studenti. Il motivo? La risposta dell’ateneo è stata che viaggiano su canali diversi: quelli dei dipendenti e dei docenti hanno un importo base tabellare, quelli dei dottorandi seguono un percorso più complicato che necessita di una determinata documentazione. Sulla vicenda è intervenuto anche il sindacato FLC-CGIL UNIGE: «L’Università di Genova non paga i dottorandi e fa ricadere la colpa del disservizio sull’occupazione dei militanti pro-Palestina di Balbi 5». Si tratta di un danno che, secondo il sindacato, «chiede una soluzione immediata e che ricade ingiustamente su lavoratrici e lavoratori precari della ricerca».

In parallelo, docenti e personale tecnico amministrativo hanno indetto un’altra raccolta firme: per chiedere all’ateneo la rescissione di contratti e collaborazioni con Israele. Richieste analoghe a quelle degli studenti. Rimaste, al momento, senza risposta. L’occupazione, intanto, prosegue.

Questa puntata di L’Unica Genova termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.

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