Val Bormida, la lotta ai veleni non è mai finita
CLAUDIA PATRONE

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Ci sono luoghi che non hanno mai pace, tormentati da vicende diverse ma in fondo sempre uguali. Cengio, nell’alta Valle Bormida, è uno di quelli: la sua area industriale è al centro di una storia di veleni più che secolare, iniziata quando la parola inquinamento non era neppure nel vocabolario degli italiani. Una storia infinita di lotte ambientali, di bonifiche annunciate e mai portate a termine, di acque ancora infestate dal percolato. Una storia che presto potrebbe aprirsi a un nuovo capitolo, visto che qui – proprio qui – qualcuno vorrebbe costruire un inceneritore destinato (anche) alla distruzione di rifiuti «speciali» e «pericolosi».
Terra di confine
Già a parlare di Valle Bormida si perde la bussola. Collocata fra due regioni – Liguria e Piemonte – la valle attraversa le quattro province di Savona, Cuneo, Asti e Alessandria. È stata proprio la geografia una delle caratteristiche determinanti della sua storia: oltre cent’anni di produzioni chimiche che davano lavoro agli abitanti dell’entroterra ligure, mentre il fiume portava giù i liquami dello scarico che avvelenavano le terre degli agricoltori piemontesi. Benessere non ce n’era, né per gli uni né per gli altri.
Cengio è in Liguria, in territorio savonese, ma a pagare per primi sono stati i paesi del Cuneese a cavallo del confine. A Saliceto e Monesiglio l’acqua dei pozzi fu dichiarata «non potabile» fin dal 1909. Di Gorzegno, qualche chilometro più in là, ha detto tutto Beppe Fenoglio: «La parte bassa è in riva a Bormida. Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna».
Nei 117 anni della sua attività a Cengio, l’Azienda Coloranti Nazionali e Affini – l’ACNA – ha visto passare alcune delle pagine più buie della Storia, quella con la S maiuscola. Qui si producevano gli esplosivi per la guerra di Libia, e il famigerato Zyclon B, il gas tossico che i nazisti usavano nei campi di sterminio, e chissà cos’altro. Da qui quantità di rifiuti industriali partivano di nascosto su navi tristemente note come la Zanoobia, che facevano il giro del mondo per poi riportare i veleni in Italia, fino a farne perdere le tracce: secondo la commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite a esso connesse, una parte dei fanghi di Cengio è finita nella discarica abusiva di Pianura, nella cosiddetta Terra dei fuochi.
L’area in cui sorgeva lo stabilimento dell’ACNA, a Cengio
Lunghi anni in cui la Valle Bormida non ha mai smesso di lottare (e spesso di perdere): nel 1938 seicento contadini si rivolsero alla giustizia per denunciare l’inquinamento prodotto dall’ACNA, il tribunale fece passare 24 anni e nel 1962 li condannò al pagamento delle spese processuali. Nel 1956 una cinquantina di manifestanti contro la fabbrica furono arrestati. Fu solo negli anni Ottanta e Novanta che le proteste richiamarono l’attenzione del Paese e il movimento spontaneo dei valligiani venne considerato il primo esempio di ambientalismo popolare italiano.
Il veleno c’è ancora
Era il 1999 quando l’ACNA chiuse i battenti, lasciando un’eredità dura come le sue lavorazioni: due milioni e mezzo di metri cubi di suolo e rocce compromessi dalla chimica pesante che negli anni aveva sostituito la produzione di guerra, 300 mila metri cubi di reflui salini contenuti in tredici bacini di stoccaggio, che qui chiamano “lagoni”. Cumuli incalcolabili di rifiuti tossici, interrati in decenni di smaltimenti incontrollati avevano persino modificato il paesaggio, creando collinette dove non c’erano mai state. Per non dire dei gas cancerogeni rilasciati nell’aria, o degli scarichi che avevano avvelenato il fiume per cento chilometri, fino alle porte di Alessandria, alla confluenza con il Tanaro.
Era arrivato il momento della bonifica: un’impresa difficile e gravosa, un esperimento di gestione ambientale inedito, fra i più complessi della storia recente. Il primo a occuparsene fu il commissario di governo Stefano Leoni, che eseguì la prima fase dell’intervento con molta accuratezza, prima di essere sostituito nel 2005 da Giuseppe Romano, dopo che erano cambiati gli equilibri politici. Il contenuto dei lagoni venne essiccato, reso inerte e trasferito con treni speciali nelle miniere di sale in Germania.
Il resto è ancora lì, sepolto lungo l’alveo del fiume, più o meno isolato: il percolato filtra nel terreno attraverso un’escursione di falda che, in caso di piogge abbondanti o di piene – non rare di questi tempi – consente il passaggio dell’acqua a contatto con i contaminanti. E lì resterà per sempre, costituendo un pericolo costante e richiedendo monitoraggio in eterno. In effetti, quella che doveva essere una bonifica, costata secondo fonti stampa oltre 400 milioni di euro, è stata di fatto una messa in sicurezza permanente, ma parziale. Lo dicono esperti che hanno studiato per anni questo tema: gente che è nata o vive in Valle Bormida, alcuni di loro hanno lavorato all’ACNA e sanno perfettamente che cos’è successo. Lo ribadiscono documenti e dichiarazioni ufficiali che non sono mai stati smentiti. Lo ripetono da anni l’Associazione per la Rinascita della Valle Bormida e l’Associazione Lavoratori ACNA, che custodiscono la memoria e non mancano di ricordare le criticità ambientali che ancora oggi caratterizzano il sito.
Una terra senza identità
La storia dell’ACNA, per lungo tempo, ha privato queste terre di identità: il modello di sviluppo fra Liguria e Piemonte non è mai stato omogeneo, né rispondente ai requisiti fisici, ambientali, paesaggistici e culturali della zona. Da una parte del confine, la fabbrica è sempre stata considerata la fonte più importante di guadagno per le famiglie. Dall’altra, le origini contadine degli abitanti hanno aperto le porte all’economia della valorizzazione dei prodotti tipici e del turismo lento. Due mondi lontani, che diventano incompatibili se la fabbrica inquina l’aria e avvelena la terra.
L’ultima tappa nella lacerazione della Valle Bormida è l’idea di costruire a Cengio l’inceneritore che la Regione Liguria intende realizzare come impianto per la chiusura del ciclo dei rifiuti. A Genova, la giunta guidata da Marco Bucci ha individuato cinque aree potenziali e, di queste, due sono in Valle Bormida: a Cairo Montenotte e a Cengio. La delibera, visionata dalla redazione di L’Unica, parla di un termovalorizzatore con produzione di energia da rifiuti indifferenziati, ma fin dalle premesse apre alla possibilità di bruciare materiale speciale e pericoloso, «con particolare ma non esaustivo riferimento a rifiuti sanitari e fanghi da depurazione». Anche il Comune di Cengio, questa volta, si è schierato con i numerosi enti locali liguri e piemontesi compatti nel rifiutare il progetto. Che, ad ogni modo, è tutt’altro che scongiurato. Sembra una storia diversa, ma in fondo è sempre la stessa storia.
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