Il vino senza alcol tenta gli astigiani

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Per alcuni sta diventando una questione identitaria: se non ha l’alcol non è vino. Per altri il futuro va in questa direzione e cercare di opporsi è inutile. In ogni caso, se ne parla sempre di più: da tabù ad argomento al centro del dibattito, la questione del vino dealcolato conquista spazio anche in un territorio molto legato alla tradizione enologica come quello compreso tra Monferrato, Langhe e Roero. Il fatto che se ne discuta non significa che sia già in atto un’inversione di tendenza, ma se non altro si cominciano a intravedere concretamente nuove prospettive di mercato. E se sul fronte cuneese le resistenze sembrano più forti, da parte astigiana si intravede qualche possibile apertura concreta.
Un contributo importante verso lo sdoganamento del vino senza alcol potrà arrivare a breve dalle conseguenze del decreto-legge fiscale che il 12 giugno ha sbloccato lo stallo «che rischiava altrimenti di protrarsi fino al 2026», come sostiene il segretario generale della UIV (Unione italiana vini), Paolo Castelletti. «Ora i Ministeri dell’Economia e dell’Agricoltura potranno lavorare da subito al decreto interministeriale che definirà le condizioni e le autorizzazioni fiscali relative alla produzione di dealcolati anche in Italia», spiega. È proprio questo l’ultimo nodo da sciogliere per consentire alle imprese interessate di poter lavorare anche da noi. Fin qui, infatti, il procedimento tecnico non era consentito entro i confini, si poteva solo vendere il vino dealcolato di importazione. Ma l’intervento transitorio in attesa dell’entrata in vigore della norma, fissata al 1° gennaio 2026, colma il vuoto ed evita nuovi ritardi nella produzione.
Un business in crescita
Si può essere più o meno favorevoli al “nuovo vino” da un punto di vista concettuale, ma nei fatti si tratta di un’interessante opportunità economica: l’Osservatorio UIV-Vinitaly stima che il mercato italiano dei vini No-LO (ovvero senza alcol oppure a basso contenuto) vale attualmente 3,3 milioni di euro, una cifra relativamente limitata, ma entro i prossimi quattro anni dovrebbe raggiungere la quota più interessante di 15 milioni.
Che togliere l’alcol sia una carta da giocare lo fanno capire anche i dati della produzione tradizionale. Secondo il report dell’Osservatorio del vino che ha analizzato i dati ISTAT, nel 2022 i consumatori di vino in Italia erano 29 milioni e 400 mila (in pratica uno su due), ma la metà di questi beveva saltuariamente: soltanto il 3,6 per cento superava il mezzo litro quotidiano. E sono soprattutto i millenials, i giovani tra i 30 e i 40 anni, a propendere per un approccio più moderato e consapevole. Ecco perché i vini dealcolati hanno la potenzialità di conquistare una fetta di mercato sempre più ampia. Le avvisaglie si vedono già all’estero: negli Stati Uniti, tra i maggiori produttori a livello mondiale, si è registrato un incremento nei consumi delle bevande analcoliche che ha toccato nel 2023 una crescita del 29 per cento, abbinato a un consistente 7 per cento riferito ai prodotti low alcol.
In Italia – sbloccata la produzione per il vuoto legislativo appena colmato – il “nuovo vino” porta denaro alle aziende che costruiscono e vendono all’estero i macchinari per il procedimento della dealcolizzazione. La veronese Vason group – fornitrice di impianti soprattutto in Sud America e Australia, mentre in Europa ha lavorato molto con la Spagna – si segnala come una delle più attive, non solo al fianco dei grandi gruppi, ma anche per quanto riguarda le aziende medio-piccole. Utilizza una tecnologia che garantisce un approccio delicato preservandone le caratteristiche intrinseche di partenza. Il know how, insomma, ce l’abbiamo in casa, ed è ampiamente collaudato.
I vignaioli tra scetticismo e aperture
Questo è il business, ma vediamo la filosofia. Il vino, da decenni, non è un prodotto come tutti gli altri: farlo, venderlo e consumarlo apre a considerazioni di tipo diverso che attraversano la tradizione, il gusto, la cultura. In questo contesto, un intervento tanto radicale come l’espulsione dell’alcol potrebbe suonare come una bestemmia in chiesa. Tra i produttori, invece, più di uno è disposto a discuterne. E, come si è detto, sembra esserci più voglia di provarci nell’Astigiano e nel Monferrato che nelle Langhe.
Il re del Barbaresco Angelo Gaja, interrogato sul tema all’assemblea cuneese di Confindustria, se l’è cavata con una mezza provocazione che ha strappato applausi e risate alla platea: «Ero contrario inizialmente, mi spiaceva che si chiamasse vino. Poi l’ho accettato perché resta nell’ambito vino ed è sicuramente il mezzo per avviare il rito del bere tra i giovani che vogliono avvicinarsi al vino ma non possono berlo alcolico, in attesa che crescano e finalmente capiscano che possono bere il vino vero».
Se molti hanno visto nelle parole di Gaja una pur minima apertura, la posizione di Roberta Ceretto, titolare dell’omonima cantina nel cuore delle Langhe, non lascia spazio alle interpretazioni: «Sarebbe un controsenso se una famiglia del vino come la nostra, in un territorio come le Langhe, si mettesse a fare dealcolati. Non li produrremo mai. Perlomeno, nessuno della mia generazione», attacca in un’intervista a Repubblica. «Nessuno dei produttori, secondo me, è “contro” a prescindere, a maggior ragione in questa fase in cui, con il nuovo codice della strada, sono state attivate sanzioni pesantissime per chi beve più del consentito. Ma dà fastidio l’associazione della parola “vino” con “dealcolato”. È sbagliato: il vino ha un processo di produzione che lo porta ad avere l’alcol».
Il calo di vendite? Le potenzialità commerciali del “nuovo vino”? L’idea che togliere l’alcol possa essere una soluzione è «terrificante», risponde Ceretto. «È sensato che i produttori storici, che credono nel prodotto, continuino a farlo come l’hanno sempre fatto. La domanda è: quanto vino è stato prodotto senza controllo? Tanti hanno strafatto, senza tener conto delle reali prospettive di assorbimento sul mercato».
Va detto, comunque, che il vino senza alcol – almeno per ora – sembra poco adatto a interpretare i grandi rossi come il Barolo o il Barbaresco. Molto più semplice pensarlo per le varietà più aromatiche, come il Moscato d’Asti. Non a caso sono numerosi i produttori locali che hanno cominciato a guardare all’estero assicurandosi già da ora un posto sui mercati internazionali.
Nell’Astigiano, il desiderio di sperimentare c’è, e non si limita alle possibilità del no alcol: c’è anche chi cerca strade decisamente alternative, come il Komb(w)ine, dove il mosto a fermentazione bloccata delle uve di moscato si unisce alla kombucha, il prodotto della fermentazione del tè biologico zuccherato. Il risultato è una bevanda con una percentuale di alcol inferiore allo 0,5 per cento.
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È possibile (ed è utile) imporre dei limiti?
Per chi intende innovare si sta aprendo un universo. E se è vero che la mancanza di alcol toglie al vini struttura e longevità, e il processo di dealcolizzazione riduce gli aromi, è innegabile che la tecnologia, già oggi in grado di supplire almeno in parte a questo problema, si sta muovendo a passo rapido anche in questo settore.
Il dibattito è apertissimo. Il mondo del vino si interroga sulla necessità di nuove sfide commerciali e inediti scenari culturali anche (o forse soprattutto) se il momento non è dei migliori. «Lo sviluppo commerciale è possibile, ma resta il fatto che ci troviamo in una situazione non facile di mercato», ha detto il presidente del consorzio Asti DOCG, Stefano Ricagno in un’intervista al settimanale albese Idea. Per lui, le priorità sono altre: «L’economia del vino è entrata o sta entrando in una fase molto delicata, dove la redditività del prodotto è ormai molto bassa. A questo proposito, forse il Moscato è uno dei pochi vini che mantiene ancora le sue posizioni, sta reggendo, ma certamente non mancano gli esempi di vini in difficoltà nel mondo della viticoltura in Piemonte».
A Nizza Monferrato, in un recente convegno di Confagricoltura, la referente per le produzioni vinicole dell’organizzazione Palma Esposito ha specificato che «tra i punti fermi» della nuova normativa (cioè il decreto-legge fiscale nominato all’inizio) «c’è il divieto di produrre vini DOC, DOCG e IGP (Denominazione di Origine Controllata, Denominazione di Origine Controllata e Garantita e Indicazione Geografica Protetta, ndr) in versione zero alcol o a bassa gradazione, regola che invece la Francia sta rivedendo con un’apertura per le denominazioni IGP». Poi ha ribadito il timore che le nuove, possibili strade da percorrere, possano danneggiare il patrimonio legato ai vini di qualità del territorio. «Tra tecnologie costose, vincoli procedurali e logistici da rispettare – ha proseguito Esposito – l’investimento è oneroso e permangono ancora molti dubbi sulle caratteristiche organolettiche del prodotto».
Di parere del tutto diverso un’imprenditrice come Pia Bosca, ceo di Bosca Spa a Canelli e pioniera nel settore: «Sono ormai anni che la nostra azienda produce vino senza alcol o a bassa gradazione anche se non abbiamo mai potuto denominarlo “vino”», dice. «Siamo quindi favorevoli a questo cambiamento per fare in modo che anche la produzione e la commercializzazione italiana si possa allineare a tutto il resto del mondo. Siamo anche consapevoli che il vino dealcolato non toglierà assolutamente mercato ai produttori di vino tradizionale».
Tra i due opposti si colloca Mariagrazia Baravalle, direttrice di Asti Agricoltura: «Confagricoltura ha una visione laica del fenomeno ed è convinta del fatto che all’interno del comparto possano coesistere varie anime: quella primaria del vino tradizionale e quella parallela e contenuta nel vino dealcolato. Il nostro impegno è quello di sostenere e tutelare tutti». «La condizione fondamentale per ottenere un buon vino dealcolato rimane comunque quella di partire da un vino di qualità, quindi sgombriamo il campo dal pensare che possa servire a svuotare le cantine da vino di cattiva qualità», ha aggiunto.
La strada, insomma, è ancora lunga e piena di curve. Intanto, oltre confine e al di là del Monviso, si registrano grandi investimenti nel settore no-low alcol: il re francese del lusso Louis Vuitton Moët Hennessy ha appena acquisito una partecipazione di minoranza nel marchio di spumanti analcolici French Bloom. Fino a quando potremo restare a guardare?
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