Il caso dell’imam che rischia l’espulsione preoccupa le comunità straniere
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«Quando ho ricevuto la notizia dell’arresto mi sono preoccupata perché da avvocata sono sempre stata convinta che la legge fosse sopra la politica. Invece qui mi sembra il contrario». La vicenda dell’imam torinese Mohamed Shahin – ora detenuto in un centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) di Caltanissetta e a rischio espulsione in Egitto per via di alcune dichiarazioni sull’attacco di Hamas in territorio israeliano il 7 ottobre 2023 – ha lasciato molti perplessi e arrabbiati, come dimostrano le numerose azioni di solidarietà organizzate a Torino e in altre città d’Italia. Oltre a essere percepita come un’ingiustizia, come ha sottolineato a L’Unica l’avvocata Farius Ahmed Jama che sta seguendo il caso, c’è anche chi teme gli effetti intimidatori che l’atto di forza del governo italiano potrebbe avere su chi scende in piazza a manifestare, ma non ha le garanzie di un cittadino italiano.
Shahin è l’imam della moschea di via Saluzzo a San Salvario, uno dei quartieri più multiculturali della città. Vive in Italia da 21 anni e a Torino ha una famiglia e due figli. Il 9 ottobre scorso è intervenuto durante una protesta per la Palestina e ha dichiarato che «quanto successo il 7 ottobre» in Israele non è stato un atto di terrorismo ma «di resistenza». L’imam è stato travolto dalle critiche e tacciato di antisemitismo. La Digos aveva immediatamente informato la Procura di Torino, ma il caso era stato archiviato perché per i magistrati le parole di Shahin non rappresentavano una violazione del diritto penale. È stata poi la deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli a sollecitare l’intervento del ministro degli Interni Matteo Piantedosi, che ha emanato un decreto di espulsione. Così Shahin è stato prelevato all’alba da casa sua e condotto nel CPR di Caltanissetta, a circa 1.600 chilometri di distanza da Torino. «Non sono una persona che sostiene Hamas. E non sono una persona che invita alla violenza», si è difeso durante l’udienza di convalida, in videoconferenza dal CPR.
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Gli avvocati e Amnesty international
«Secondo me è stato un grosso errore – ha detto ancora l’avvocata Jama –. Come ne usciranno politicamente non lo so, dal momento che abbiamo prove che non ci sono legami con falangi estremiste e che non ha mai incitato alla violenza o fatto abuso di potere in qualità di imam. È stato persino selezionato come insegnante di arabo per la Scuola di applicazione militare di Torino nel 2018». Ora i legali, Jama e Gianluca Vitale, hanno chiesto che Shahin venga trasferito al CPR di Torino. «Siamo in attesa della risposta della Cassazione. Martedì 9 dicembre c’è stata un’audizione di Shahin per l’unico elemento davvero in ballo: un blocco autostradale fatto durante una manifestazione pro-Palestina», ha spiegato la legale. Gli avvocati, inoltre, hanno presentato una richiesta – respinta – di asilo politico. Contro il diniego è stato presentato un ricorso di oltre cento pagine. Shahin, cittadino egiziano, è un dissidente politico del regime autoritario di al-Sisi: se fosse rimpatriato in Egitto la sua incolumità potrebbe essere compromessa. Dal 2013, infatti, non mette più piede nel suo Paese natale, perché dopo la crisi politica culminata nella destituzione del presidente eletto Mohamed Morsi è stato avviato un nuovo ciclo autoritario. In quanto oppositore del regime, l’imam non può più rientrare in sicurezza anche se il resto della famiglia è lì: uno dei suoi fratelli è condannato a morte dal regime, l’altro è ricercato, ha raccontato la legale.
Sul caso è intervenuta anche Amnesty international. «Dovremmo ricordare che la nostra Costituzione garantisce la libertà di espressione e di associazione, ma soprattutto stabilisce, all’articolo 10, che non è ammessa l’estradizione dei cittadini stranieri con asilo politico», ha detto a L’Unica Tina Marinari, coordinatrice delle campagne per Amnesty. «La nostra preoccupazione è sia sulla vaghezza delle accuse – non ci sono prove circostanziate di incitamento all’odio, di rischio per la sicurezza nazionale, di ideologia antisemita ed estremista – sia sul rischio che potrebbe correre Shahin una volta rientrato in Egitto. Sono frequenti i casi di arresto, tortura, sparizioni forzate di detenuti per i cittadini egiziani rientrati nel Paese dopo aver mostrato dissenso verso il regime».
Un caso vicino all’Italia – ha spiegato Marinari – è quello di Patrick Zaki, il ricercatore egiziano dell’Università di Bologna detenuto in Egitto per oltre tre anni in seguito ad alcuni commenti sui social contrari al regime. «Espellere una persona per aver pronunciato parole pur contestabili è illegittimo ma, soprattutto, l’espulsione di Shahin in Egitto sarebbe una violazione del principio di non refoulement», che nel diritto internazionale vieta agli Stati di rimandare nel Paese di origine rifugiati e richiedenti asilo che in patria sarebbero minacciati da persecuzioni o torture. «Possiamo essere contrari, ma non sono questi i termini per discutere quel disaccordo».
Le voci della città in difesa dell’imam
«La nostra impressione è che, oltre alla persona, si voglia colpire un modo di convivere», ha detto a L’Unica Augusto Montaruli, presidente della sezione Anpi “Nicola Grosa” di Torino, parente e omonimo della deputata che ha chiesto l’espulsione di Shahin. «Noi con la comunità abbiamo collaborato, abbiamo realizzato molte iniziative che hanno coinvolto tutte le comunità sia religiose che laiche. Da quella ebraica, a quella valdese, a quella cattolica. Tutti insieme». Per Montaruli, Shahin è un punto di riferimento per il suo impegno civile e volto al dialogo interreligioso: «È uno dei protagonisti di questa convivenza civile e sociale. È stato proprio lui qualche anno fa a chiederci di consegnare in moschea la traduzione in arabo della Costituzione. Al momento della consegna c’erano autorità civili, esponenti delle varie religioni e c’era il quartiere che lo conosce». E poi è stato fautore delle cene del Ramadan organizzate in strada. «Le tavolate andavano dalla moschea alla chiesa», ha ricordato Montaruli.
«È una persona rispettabile, che ha costruito ponti, ha costruito dialogo: è tutt’altro da quell’imam radicale che viene descritto nel decreto del ministro Piantedosi e nelle dichiarazioni di alcuni politici», ha detto a L’Unica Brahim Baya, attivista ed esponente della comunità islamica torinese che è stato anche presidente dell’associazione che gestisce la moschea Taiba di Porta Palazzo, cuore della Torino multietnica.
Baya conosce Shahin da quindici anni e da altrettanti organizza iniziative volte allo scambio interculturale con lui. «Abbiamo fatto un patto con i torinesi che si chiama “Torino è la nostra città”: un patto di condivisione che ha fatto seguito agli attentati di Parigi. E l’iftar [il pasto serale con cui i musulmani interrompono il digiuno quotidiano durante il mese di Ramadan, ndr] aperto al quartiere era una delle iniziative previste da questo patto». Questa vocazione al dialogo di Shahin ha coinvolto tutte le comunità religiose di Torino, compresa la sinagoga. «Oggi ebrei e musulmani sembrano nemici, ma non lo sono – ha spiegato Baya – Shahin ha organizzato diverse visite reciproche tra moschea e sinagoga. Con l’inizio del genocidio ha sentito di dover fare qualcosa per Gaza. Si occupava della logistica, del guidare le manifestazioni. Anche lì è stato un elemento di equilibrio».
Ciò che preoccupa Baya è che il caso di Shahin possa avere l’effetto di intimorire chi, come loro, ha un background migratorio e vuole scendere in piazza per rivendicare il diritto al dissenso e protestare contro il genocidio in Palestina. «Con l’espulsione di Shahin vogliono colpirne uno – e distruggere una famiglia – per educarci tutti. I governi che si sono succeduti in Italia hanno spesso utilizzato lo strumento dell’espulsione soprattutto nei confronti dei leader delle comunità islamiche, per tenerle sotto ricatto. In questo modo le comunità si sentono sempre attaccabili e quindi difficilmente prendono posizione. Non riescono a rivendicare i propri diritti e accettano di vivere in un clima di terrore, perché l’Islam non è una religione riconosciuta» al pari di altre. «Non abbiamo diritto alle moschee, se le vogliamo dobbiamo costruircene di private, e non abbiamo diritto all’8 x mille, anche se siamo la seconda religione in Italia per numero di fedeli».
I timori che il caso di Shahin possa avere effetti intimidatori sono condivisi anche da Tina Marinari di Amnesty. «Questo caso ci lascia perplessi perché la facilità con cui una persona straniera rischia l’espulsione, con un provvedimento sproporzionato e con accuse di minaccia alla sicurezza nazionale è abbastanza preoccupante e ci sembra che vada a inserirsi in uno schema di politiche repressive», ha detto. Amnesty – ha spiegato Marinari – porta avanti una campagna sul diritto di protesta pacifica nel mondo da diversi anni, perché «è un termometro della democrazia di qualsiasi Paese. Se è stato arrestato Shahin allora potrebbero essere arrestate tutte le persone di seconda generazione che stanno in Italia e manifestano perché vedono nel dramma della Palestina una lotta per l’uguaglianza e la libertà dei popoli».
Resterà da capire se le vaste mobilitazioni e la stima delle persone che hanno conosciuto l’imam torinese riusciranno a convincere i giudici, insieme agli atti depositati dai legali di Shahin, che si sia trattato di un equivoco o di un calcolo politico sbagliato. «Io sono ottimista sempre, ma mi fa male vedere che in uno stato di diritto una persona possa essere considerata “un problema per la sicurezza dello Stato” per via di un comizio o di un blocco stradale», ha detto l’avvocata Jama. La legale racconta che Shahin, nel CPR di Caltanissetta, non si è perso d’animo. «Ieri mi ha chiesto di ringraziare tutti, dal più grande al più piccolo. Sa che le scuole hanno fatto raccolte, ci sono manifestazioni in giro per l’Italia. Mi ha detto: “Assicurati di ringraziarli tutti”».
Shahin ha chiesto anche che si protesti senza violenza e a questo ha fatto eco Brahim Baya, che ha voluto prendere le distanze dall’incursione di alcuni manifestanti torinesi nella redazione de La Stampa il 28 novembre scorso: «Al caso di Shahin ha fatto più male che bene. Anzi direi solo male», ha commentato. Jama ha lanciato poi un appello: «Se dovete manifestare per lui fatelo rappresentando il vero spirito di Shahin», cioè, ha ribadito l’avvocata, la stessa persona che, pur chiusa in un centro per il rimpatrio a 1.600 chilometri da casa, non ha smesso di lavorare per gli altri. «Ha chiesto un pacco con un elenco di roba per un suo compagno che si trova chiuso nel CPR con lui. Vuole consegnare questo pacco alla moglie. Capisci? Questo è Shahin. Nemmeno là dentro può stare fermo».
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