Una vita a lottare per l’Ilva: intervista a Franco Grondona, bandiera della FIOM genovese

Una vita a lottare per l’Ilva: intervista a Franco Grondona, bandiera della FIOM genovese
Nella foto Franco Grondona

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Il suo ufficio è in fondo al lunghissimo corridoio che porta alla sede della FIOM, il fortino dei metalmeccanici, dentro i locali della CGIL a Cornigliano. Proprio lì dove tutto è incominciato e – si spera – finito con le parole del ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso che, nell’incontro del 5 dicembre con le autorità liguri a Roma, ha ribadito che «non c’è alcun piano di chiusura» per l’Ilva a Genova.

La lunga storia dell’acciaio in Liguria si identifica con un protagonista delle lotte sindacali: Franco Grondona, classe 1948, per vent’anni segretario della FIOM, ancora oggi il “capitano” che sta in testa ai cortei, quello che con una mano ferma o dà il via agli altri. Che obbediscono.

Cornigliano, periferia a Ponente di Genova. Grondona abita a due passi dalla CGIL, quasi a conferma che per lui quel pezzo di città, dove molto tempo fa si vedeva il mare, è la sua Genova. Lui, che con l’acciaio è un tutt’uno da decenni, ha vissuto tragedie e vittorie. Una lunga storia nata con 12 mila operai nella fabbrica, che ora i novecento rimasti difendono.

Fuori dalla porta dell’ufficio di Grondona con le foto e i manifesti del Novecento appesi dietro la scrivania, aspettano di parlargli le sue “guardie rosse”, omoni con felpa della FIOM che in testa ai cortei dei giorni scorsi era impossibile non notare. Al suo segnale si allontanano e lui dal suo ufficio incomincia il racconto. Di vita e di lavoro, di gioie e lotte senza quartiere.

Lui, Franco Grondona, ex capo della FIOM, e ora comunque ancora in pista a discutere o minacciare, a coordinare gli uomini con la felpa rossa, a calmare gli animi. Lo hanno accusato di fomentare la rivolta e lui – con L’Unica – se la ride: «Ma cosa volete che fomenti, in corteo si sa cosa può succedere, l’importante è non perdere la testa». In prima fila “Franco” c’era sempre, con il berretto e la testa un po’ incassata nelle spalle per ripararsi un minimo dal freddo. Alla fine, però, si è lasciato andare e ha abbracciato con un sorriso la sindaca Silvia Salis che era stata al fianco degli operai a Genova e a Roma. E si era data da fare sul serio. Senza mollare.

La lunga storia dell’acciaio a Genova ha molti decenni alle spalle e un punto centrale: l’accordo di programma per cedere l’altoforno a Taranto che aveva bisogno di strutture produttive e mano d’opera. Era il 2005. Poi che cosa è successo? Grondona la fa spiccia: «È successo che è arrivato Felice Riva e per un po’ il lavoro c’è stato». E anche le “Donne di Cornigliano” stufe di vedere la polvere nera della fabbrica posarsi sul davanzale delle loro finestre, stufe di vivere con la paura delle malattie, anche loro, pronte a litigare con i loro uomini, per un po’ hanno taciuto, aspettando di capire se davvero sarebbe cambiato qualcosa. Periodo duro, difficile, che Grondona ha vissuto sempre in prima persona, da leader. Perfino in politica, avrebbe voglia di far diffondere le idee di Lotta Comunista.

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Grondona ma chi vi segue ancora? Voi e Lotta Comunista? Alla domanda de L’Unica, lui incomincia una breve arringa. Il fatto è che in FIOM, al porto, nelle fabbriche, la maggior parte dei lavoratori segue lui o il console dei portuali e Lotta Comunista domina nei voti.

Ma a che cosa serve continuare con questa chimera, con i ragazzi che vanno in giro a distribuire il giornale?

«E dove dovrebbero andare? Alle fabbriche ormai ci pensano in pochi».

Come è stata la sua vita da sindacalista? Quando è incominciata?

«In febbraio, nel 1970, dopo l’università».

Quale facoltà?

«Economia e commercio».

E che cosa è successo?

«Ho finito gli esami ma ho trovato un posto all’Italsider, nello stabilimento intitolato a Oscar Sinigallia».

Addio laurea, allora?

«E chi l’ha detto? C’è stato un periodo in cui ero in cassa integrazione, e ne ho approfittato per laurearmi. Era il 1990».

Franco Grondona però era stato assunto come operaio.

«Ho sempre fatto l’operaio, e allora c’era un sindacato potente, Si chiamava FLM, Federazione dei metalmeccanici: era una federazione, ma l’unità non c’è mai stata».

Grondona, torniamo al primo giorno. Era impaurito, contento, emozionato?

«Dopo quindici giorni di prova mi hanno assunto a tempo indeterminato. Allora era così, e se cambiavi fabbrica te lo portavi dietro».

Che cosa?

«Il tempo indeterminato, mica come adesso».

Torniamo alle sue sensazioni: gioia, timore?

«Ero contento, felice perché il lavoro leva un po’ di preoccupazioni, e poi mi piaceva stare con gli operai. Non ho voluto mai essere altro che una tuta blu, eppure avrei potuto andarmene».

A casa nessuna protesta, per questa sua scelta?

«No, mia moglie è stata una compagna vera, di politica e di vita».

Figli?

«Quattro».

Da Cornigliano, intanto, lei era passato a un’altra fabbrica

«All’Italsider di Campi, dove c’era un forno elettrico e noi dovevamo tagliare il ferro che era il cibo del forno, ma nel 1984 l’hanno chiuso. Un’altra pagina della storia di Genova che se n’è andata così. Noi abbiamo demolito Campi, ma nessun industriale si è offerto per rilevare le aree».

E quindi?

«Mi feci tre anni di cassa».

E quando ha incominciato con il sindacato?

«Ero delegato, prendo il 38 per cento di voti FIOM, poi entro in segreteria, come settore mi danno la siderurgia».

Delegato e militante di Lotta Comunista, una bella accoppiata, ma nel 1988 Campi chiude.

«Era una fabbrica storica, noi eravamo più di mille. Abbiamo pagato prezzi pesanti: da sempre provano a mettere contro il lavoro e l’ambiente, servono tutte e due. Invece di chiudere si potrebbe trovare anche altro lavoro, ma niente».

Il sindacato intanto si rafforza, Grondona è il riferimento della gente in tuta blu, diventa segretario della FIOM, ma il clima è teso, si guerreggia: la rivolta delle “Donne” – aiutate da don Giacomo Pala, il parroco di Cornigliano – si scatena. Chi protesta dice: «Genova deve sapere che qui dal mare siamo passati alla polvere nera, che ci tocca morire di lavoro». Con gli operai è scontro aperto, Grondona per una volta, non sciupa troppe parole. Hanno ragione tutti, ma quell’altoforno che serve a Riva diventato padrone, bisogna mandarlo via.

Sarà la guerra dei vent’anni di Cornigliano, finchè nel 2005 Regione, Comune, e tutti i protagonisti si incontrano a Roma e decidono: l’altoforno andrà a Taranto che ha bisogno di lavoro, le lavorazioni meno inquinanti restano a Genova. Intanto Riva diventa “il padrone” di tutto, a Nord come al Sud. Grondona, con L’Unica, ammette: «Era furbo e abile, noi eravamo sicuri. Poi è scoppiata un’altra bufera, partita dal Sud, dove la gente non voleva più essere inquinata, aveva paura del cancro. Hanno ragione, hanno ragione, ma con cosa poteva essere sostituito l’acciaio? Arriviamo sempre allo stesso punto. Intanto Taranto è quasi bloccata: l’hanno deciso i giudici».

Grondona, torniamo a Genova, ai cortei, adesso come si sente dopo la schiarita con il ministro?

«Per ora l’abbiamo scampata: fino a febbraio siamo tranquilli. Ma restiamo vigili, molto vigili».

Il vecchio sindacalista medita un po’, guarda le foto in banco e nero. Il suo diventa un racconto di gioventù, di quando lui ragazzo faceva l’operaio insieme con 12 mila colleghi. «Eravamo tanti», ripete.

 Se lei dovesse definire un operaio, che cosa direbbe?

«Una persona costretta a lavorare per mangiare, perché non ha i mezzi di produzione, uno che ha la coscienza di classe, del mondo a cui appartiene. Ora sono tutti individualisti: coscienza, passioni, coraggio e orgoglio li hanno messi da parte».

Lei è soddisfatto, sereno?

«Ho avuto quattro figli, ho vissuto seguendo le mie idee, e questo è importante perché quello che fai così non ti pesa. Prenda me: avrei potuto essere commercialista, o andare in un’azienda, ma fare quello che vuoi non ha prezzo».

Com’era il Partito Comunista Italiano nell’ultima fase?

«Era un’organizzazione che batteva quelle di adesso dieci a zero, all’Italsider  aveva 110 iscritti alla sezione Cabral, un mito, e a Genova gli iscritti erano 42 mila».

E ora voi continuate a battagliare?

«Vorrei che fosse chiara una cosa: noi abbiamo fatto cortei e il resto non per noi ma per Genova che rischiava di perdere novecento posti di lavoro. Noi per primi, certo».

Così poi avete chiesto scusa alla citta per i disagi?

«Sì. Ma ripeto: lo abbiamo fatto per Genova, non solo per noi».

Fuori l’aria è diventata più gelida. Dentro, alla fine del lungo corridoio, lo stanno aspettando. Franco Grondona, classe 1948, ancora una volta alla testa di una battaglia per il lavoro, ha vinto. Sorridono anche gli omoni con le felpe della FIOM. È andata, per ora. Franco Grondona, l’uomo d’acciaio, si concede un sospiro di sollievo.

Questa puntata di L’Unica Genova termina qui. Se ti è piaciuta, condividila! E se pensi che ci sia una storia di cui dovremmo occuparci, faccelo sapere: ci trovi a info@lunica.email.

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